Konrad Vilhelm Mägi. Nuvole nell’anima

di Paolo Repetto, 20 aprile 2024 – dall’Album “Konrad Vilhelm Mägi. Nuvole nell’anima

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima copertinaCredo che nove italiani su dieci (è una stima ottimistica) non saprebbero rintracciare l’Estonia su una carta geografica. Figuriamoci poi conoscere qualcosa dell’arte estone. Quest’ultima lacuna valeva anche per me, fino a quando non ho visitato una mostra di Konrad Mägi, a Torino, quattro anni fa, l’ultimo giorno utile prima della serrata per Covid. Forse per questo la mostra mi è rimasta così impressa. Ma in realtà credo che i motivi siano altri.

Mi aveva colpito soprattutto l’eccentricità della pittura di Mägi. In senso letterale: la lontananza da ogni centro, la non riconducibilità ad alcun modello. Avevo sì l’impressione di riconoscervi di volta in volta riferimenti alle correnti artistiche precedenti o a quelle sue contemporanee, dall’impressionismo al fauvismo, dall’espressionismo all’Art Nouveau e alla pittura metafisica; ma erano così rimescolati e sovrapposti da dare origine a qualcosa di assolutamente originale. E poi, ad amalgamare il tutto, una dimensione onirica, il senso di solitudine che pervade i paesaggi, i colori marcati, suggestivi, che esplodono fuori dalla tela. Insomma, dietro quei quadri ho percepito una personalità irrequieta, profondamente depressa, persino instabile.

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima 02

E infatti. Magi nasce nel 1878 in Estonia, ma si trasferisce nell’adolescenza a Tartu, in Finlandia, dove lavora come apprendista falegname e frequenta anche corsi di disegno. Sviluppa interesse per l’arte figurativa, senza dargli però uno sbocco; fino a quando, ormai venticinquenne, si sposta a san Pietroburgo, in cerca di fortuna, ma soprattutto di un indirizzo da dare alla sua vita. Qui partecipa agli eventi della rivoluzione del 1905, e subito dopo, per sfuggire ad una’atmosfera divenuta pesante, cerca rifugio per un certo periodo nelle Isole Åland, all’imbocco del golfo di Botnia, dove esiste una comunità quasi anarchica di artisti e letterati. Non ci resiste però a lungo. Non è uno scapigliato, è anzi molto elegante, distinto e attento alle forme (anche alla cultura fisica, che è uno dei suoi pallini), tendenzialmente solitario: le stravaganze se le tiene dentro. In quell’ambiente dipinge i primi quadri e matura la consape volezza di aver preso la strada giusta, ma anche quella di avere ancora molto cammino da fare per raggiungere risultati soddisfacenti.

Questo cammino lo porta inevitabilmente a Parigi, dove approda nel 1907, dopo un anno trascorso lavorando ad Helsinki per far su qualche soldo. Il contatto con un mondo culturale vivacissimo, così diverso da quello del baltico nordorientale, da un lato lo attira, dall’altro lo spaventa e lo respinge: in più c’è il problema economico, perché la vita nella capitale francese è carissima, e lui è ridotto letteralmente alla fame, al punto da ritrovarsi con una salute irrimediabilmente minata. Di lì a poco si trasferisce dunque in Norvegia, dove comincia a dipingere compulsivamente e a guadagnarsi la vita con la sua arte. Può così permettersi nuovamente una paio di escursioni in francia, e segnatamente in Normandia, ma il richiamo del suo Nord lo fa rientrare, soprattutto dopo che le sue opere hanno conosciuto un buon successo in occasione di una prima mostra in patria.. Nel 1910 è di ritorno a Tartu, e poi dal 2012 in Estonia, dove fonda una scuola d’arte decisamente avveniristica per i luoghi e per i tempi.

Konrad Vilhelm Mägi Nuvole nell’anima 03

Le peregrinazioni non sono tuttavia terminate. La rivoluzione d’Ottobre rimette scompiglio nel precario equilibrio che Mägi ha raggiunto. L’Estonia ottiene l’indipendenza, ma la situazione è pesante. La meta dell’ultimo espatrio (siamo ormai nel 1920) è l’Italia, dove soggiorna per quasi due anni, visitando Venezia, Roma e Capri. La luce e i colori del mare e dell’isola lo affascinano, così come hanno affascinato moltissimi suoi ex-connazionali in esilio (Konrad era stato sino a quel momento cittadino russo): tanto che pensa di aver trovato una seconda patria. Ma anche questa volta non tarda a ricredersi: è ossessionato dal trascorrere del tempo (e le rovine della classicità rinfocolano questa ossessione), dalle forze che lo abbandonano, dall’angoscia di dover lasciare lo straordinario spettacolo che la natura mediterranea gli offre. Il suo equilibrio psicologico è gravemente compromesso, e anche quello fisico è minato ormai da diverso tempo. Rientra così nuovamente a Tartu, dove si spegne lentamente a quarantasei anni, dopo aver dipinto in maniera “professionale” per non più di quindici.

La tormentata vicenda esistenziale di Mägi non ha conosciuto requie, e ha lasciato un segno progressivamente più profondo nella sua arte: che è tutta volta a fermare, nel senso di sottrarre al tempo, alla caducità, alla dissoluzione, gli straordinari momenti di bellezza, sia umana che naturale, dei quali la natura ci fa partecipi. Questo sembrano volere, con la forza del segno e del colore, sia i suoi paesaggi che i suoi ritratti, Se poi negli uni e negli altri cominciano a comparire delle nuvole, che si affacciano dietro le alture e i profili delle montagne, fino a creare nell’ultimo periodo atmosfere sempre più cupe, questo non fa che testimoniare la sua consapevolezza di addentrarsi in tempi bui, e non solo per la sua personale situazione. E anche una singolare e contingente preveggenza: il giorno successivo alla mia visita tutti i musei, assieme ad ogni altra attività pubblica, erano chiusi. Le sue opere, dopo essere state bandite in patria per tutto il tempo della dominazione sovietica, avrebbero dovuto attendere altri sei mesi per tornare visibili al pubblico italiano.

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Il surreale inferno di Leon Spilliaert

di Fabrizio Rinaldi, 29 gennaio 2023 – dall’Album “Il surreale inferno di Leon Spilliaert

Il surreale inferno di Leon Spilliaert copertinaSono in libreria, in cerca di regali per Natale, quando l’occhio viene attratto da una raffinatissima copertina della Biblioteca Adelphi, nella quale la linea nera scontorna un paesaggio solitario, reso con colori tenui e linee quasi geometriche.

Leon Spilliaert 06Il libro è Dall’inferno, di Giorgio Manganelli, e si rivelerà anche interessante. Ma a catturarmi è stata la copertina e non è certo la prima volta. Ormai le librerie sono diventate delle gallerie d’arte. Le copertine – oserei dire soprattutto quelle dei piccoli editori – sono davvero belle e accattivanti (non sempre si può dire altrettanto dei contenuti) e offrono occasioni di inediti incontri con il mondo delle immagini, mentre i grafici hanno affinato la conoscenza delle diverse capacità attrattive dei colori e dei font. Non sono cose banali: ricordo con un fastidio anche tattile la moda in voga negli anni Novanta, che imponeva titoli dai caratteri enormi, colori fosforescenti e, in particolare, i caratteri in rilievo. Facendo scorrere le dita su certi Oscar Mondadori avevi già la certezza che il contenuto poteva essere evitato.

Leon Spilliaert 03Tornando al libro di Manganelli, nel risvolto leggo che il quadro riprodotto in copertina è di Leon Spilliaert (1881-1946), un pittore belga che raffigurava per lo più paesaggi di campagna e spiagge del mare del Nord, creando atmosfere piuttosto cupe.

Spilliaert non arrivava da studi accademici, era praticamente un autodidatta, ciò che non gli impedì di trovare una sua personalissima forma stilistica. Continuò tuttavia a covare per tutta la vita l’insoddisfazione per non vedersi valorizzato dalla critica dell’epoca.

In effetti visse ai margini della cultura belga, conducendo nella nativa Ostenda un’esistenza abitudinaria e isolata, assieme alla moglie e ad una figlia. Nella scarsa considerazione che gli fu riservata in vita come pittore c’entra senz’altro il fatto che la sua attività ufficiale e prevalente, quella che dava da vivere a lui e alla sua famiglia, era di illustrare di romanzi per adulti, peraltro in un’epoca nella quale l’illustrazione faceva tutt’uno con il testo. E questa pratica la si riconosce pienamente anche nelle scelte stilistiche e cromatiche della sua pittura. Era poi tormentato da diversi problemi fisici che gli producevano una costante irrequietezza e una insonnia cronica, sedate con lunghe e solitarie camminate notturne fino all’alba, lungo la spiaggia del suo paese. Traeva ispirazione da ciò che vedeva non allo spuntare del sole, ma negli attimi appena antecedenti, quelli in cui il cielo comincia a mutare colore, passando dalle sfumature più scure alle tonalità meno cupe: e questo spiega le tele intrise di solitudine e le atmosfere surreali, oniriche e misteriose.

Vi compaiono in genere figure umane che camminano su spiagge deserte, lungo sentieri che si perdono in lontananza: o in altri casi vagano nella notte, fra edifici scuri appena abbozzati dalla luce dei lampioni, unico appiglio cui aggrapparsi per uscire dall’incubo.

Come si può immaginare, Spilliaert amava sia la letteratura onirica di Edgar Allan Poe (di cui aveva illustrato alcuni testi) che la filosofia eversiva di Friedrich Nietzsche. E nei suoi dipinti sono rintracciabili riferimenti ai paesaggi romantici di Caspar David Friedrich e a quelli inquietanti di Edvard Munch e di Vilhelm Hammershøi, mentre l’uso marcato di giochi prospettici anticipa i lavori di Giorgio De Chirico.

Leon Spilliaert 02L’impiego di pochi colori e la predominanza del nero accentuano la tensione introspettiva; al tempo stesso l’uso di tinte terrose e marine, dalle quali emerge uno sprazzo di luce gialla o bianca, crea l’impressione che l’osservatore emerga dalle tenebre. Un lampo di speranza che squarcia l’atmosfera tetra. Le sue insicurezze e i suoi dubbi tornano poi nei giochi di specchi che caratterizzano gli autoritratti.

A dispetto di tutto e di tutti Spilliaert ha creduto fino in fondo nella propria poetica ed è considerato oggi uno dei massimi esponenti dell’Espressionismo belga.

Leon Spilliaert 04

L’immagine della copertina, come dicevo, mi ha molto colpito. Ma evidentemente sono un po’ strano, perché – a differenza dei molti che sono andato a consultare – non trovo i suoi dipinti così inquietanti, tetri e intrisi di solitudine. Li considero invece piacevoli e rilassanti, quasi rassicuranti, come mi accade per molte opere di Mark Rothko. La semplicità con cui suddivide gli spazi, i colori tenui, mai urlati, hanno un ché di pacato e meditativo.

Ci vedo comunque una speranza, una luce che s’intravvede nelle tribolazioni quotidiane. Dunque, sono proprio strano …

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Collezione di licheni bottone