Lingue, sudore e metrica

di Carlo Prosperi, 2 marzo 2024

(Pubblichiamo un contributo inviatoci recentemente da Carlo Prosperi. Non avrebbe bisogno di alcuna presentazione, più chiari di così è impossibile, ma consideriamo parte integrante del testo anche le parole che lo accompagnavano, e pertanto le premettiamo.)

Caro Paolo,
in attesa di mandarti alcune mie considerazioni sull’A. I. e sugli ultimi sviluppi della tecnologia macchinistica e robotistica, ti invio – se pensi che possa interessare – l’introduzione da me scritta all’ultima antologia (uscita tre o quattro anni or sono) dei vincitori del Concorso Guido Gozzano di Terzo. Ho provveduto a qualche ritocco e, comunque, se vuoi, puoi tranquillamente pubblicarla. Puoi considerarla una prefazione, poeticamente orientata, a quanto mi riprometto di scrivere sull’infatuazione forsennata per la tecnica (e la tecnologia): un’ulteriore tappa della folle corsa di un’umanità di piromani che gioca con una rivoluzione sociale, culturale e filosofica di cui s’ignorano i confini. O, se preferisci, un viaggio a fari spenti nella notte per vedere se sia poi davvero così difficile morire, come nella nota canzone di Lucio Battisti. La macchina, che – a dire di Spengler – ha preso il posto di Dio detronizzato e morto, prima o poi si sbarazzerà dell’uomo, il quale già vive con il timore di stare qui per caso, senza uno straccio di ragione, in balìa di un Lord of game imperscrutabile, “che gioca a dadi o a nascondino”. Pensa alle masse analfabete in fatto di informatica e di elettronica (nel numero mi ci metto anch’io, per primo) alla mercè dei pochi sapientes tecnocrati … Ti dicono che, con lo sviluppo dei robot, aumenterà il tempo libero, ma anche questa prospettiva mi spaventa: ti immagini le masse spaesate dal tempo libero che cercano sfogo nei vizi, rimbecillendo, o, peggio ancora, nelle contese sportive o politiche, negli scontri tra opposte fazioni, come accadeva nella Roma del primo secolo a. C., quando le bande fanatiche di Clodio e Milone si massacravano in una sorta di guerra civile? Ma non voglio, per ora, anticipare i tempi. E mi fermo qui. Augurandoti una rapida ripresa. Un abbraccio, Carlo.

Lingua, sudore e metrica 06

Lo stato dell’arte

Presero alcuni a invilupparsi dentro
ragnatele di versi senza capo
né coda, coltivando un metro sciapo,
persuasi della perdita del centro.

Altri, scioccati dalla malattia
dell’anima, smarrirono ogni fede
nella parola e piede dopo piede
sconfinarono, ahimè, nell’afasia.

Non più che balbettìi e borborigmi
udivi uscire dalle loro labbra:
qualche sillaba storta, qualche scabra
reliquia degli antichi paradigmi.

Altri ancora lucravano sul corpo
dell’arte vilipesa ed il cadavere
straziato e pesto dalle loro clave
defraudavano d’ogni regia porpora.

Per altri infine era ludibrio e gioco
l’arte dei versi: non più soglia mistica,
ma frigido esercizio di enigmistica,
cervellotico show e fatuo fuoco.

Aura non v’era più, non più profumo
d’ambrosia auliva dalle dirute are:
lassù un miraggio di stella polare
sprofondava in un vortice di fumo.

Ma rima dopo rima, Pollicino
testardo, senza indulgere ai sinistri
presagi o al suono futile dei sistri,
proseguìi tutto solo il mio cammino.

Sapevo che ad attendermi là fuori
del bosco c’era la mia casa, il noce
che l’adombrava: udivo già la voce
querula di mia madre nei canori
versi dei merli, nei loquaci ingorghi
dei ruscelli. Le tracce erano vaghe:
segni sui tronchi di vetuste piaghe,
frusci di vento, fremiti di sorghi.

Ma la mia fede era inconcussa: l’eco
che mi vibrava dentro nei precordi
(o forse la risacca dei ricordi?)
mi era di guida nell’intrico cieco.

Cantavo dunque contro le paure,
fedele alla mia Musa, ai miei princìpi,
senza nutrirmi di vivande insipide
e senza abbeverarmi ad acque impure.

Sarà per questo che per qualche grazia
del cielo avverto prossima la meta
dove sgorga la polla che disseta
e nevica la manna che mi sazia.

Lingua, sudore e metrica 02

Era il 2011: due lustri or sono. Tiravo allora le somme degli ultimi decenni di poesia, anche nel tentativo di dar conto della mia personale poetica. Ebbene, nel frattempo mi sembra che le cose siano in parte cambiate e che vadano tuttora cambiando, e proprio nel senso da me allora auspicato. I giovani poeti, per quanto almeno mi è dato giudicare dalla mia specola di presidente del Premio Guido Gozzano di Terzo, sia pure a fatica, si vanno via via affrancando da certi vieti condizionamenti del passato che rischiavano di portarli ad incagliarsi tra le secche dell’afonia, se non dell’afasia, o a perdersi nei più insulsi e insensati blateramenti in nome o con la scusa dei più arditi e talora ignobili sperimentalismi. Ah, le seduzioni della modernità e dei cattivi maestri che hanno invitato a fare tabula rasa della tradizione ed insegnato a «ribellarsi alle regole, dando prevalenza al gesto, alla libertà sconfinata dell’io dell’artista-demiurgo capace, con il proprio comportamento creativo, di rovesciare ogni precetto»! La poesia, come in generale l’arte, è «una meravigliosa costrizione con regole stabili, come le migliori partite di scacchi che si svolgono per forza sulla scacchiera e non fuori da essa, pur con mosse geniali» (Alzek Misheff). Diceva giustamente Auguste Rodin: «L’arte viva è un proseguimento di quella del passato». Non nel senso della ripetizione, ma della continuità. La tradizione non è un fossile, ma un modello dinamico. Un punto di riferimento per chi voglia andare oltre.

Lingua, sudore e metrica 03

Si è parlato per molto, troppo tempo di crisi dell’io, della sua irrimediabile dissoluzione. Tutto è cominciato con la fine dell’antropocentrismo e la scoperta delle screpolature nel cielo di carta sopra di noi. Nessuno può più mettere in discussione la rivoluzione copernicana, che ha fatto della Terra un atomo insignificante nell’economia dell’universo. E, venuta meno la centralità della Terra, anche le sorti dell’uomo hanno subito un’analoga destituzione. «Ormai – dice il pirandelliano Mattia Pascal – noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre». Lo svilimento dell’uomo è quindi proseguito con la scoperta che anche l’io, lungi dall’essere un’unità più o meno armonica ovvero “un continente”, è in realtà “un arcipelago”, di labile e precaria consistenza. La stessa esistenza individuale si è rivelata «un relitto alla deriva nel mare della storia e nel flusso della corrente psichica» (Claudio Magris). Stando così le cose, c’è chi ha avvertito l’esigenza di abolire o di superare i tradizionali confini dell’io umanistico per approdare al nuovo modello antropologico dell’“oltre-uomo” e chi per contro ha preteso di accelerare e di incentivare la disgregazione dell’io, senza risparmiarne le espressioni culturali, a cominciare dal linguaggio. Di qui le elucubrazioni, spesso sofistiche e fumose, di maîtres à penser come Guattari, Deleuze, Foucault, Lacan, Derrida: tutti impegnati in un’opera tanto forsennata quanto gratuita di decostruzione e di disgregazione. In nome del caos. Puro masochismo a volte, a volte manifestazione di squisito e compiaciuto narcisismo. In ogni caso, forme luciferine d’intelligenza.

Lingua, sudore e metrica 04

Non si vuole con ciò negare o mettere in dubbio che ci sia molto di vero in tutto questo. Ma che senso ha indulgere in tal modo – in un accesso di cupio dissolvi – a Thanatos, assecondare il principio di morte e di distruzione, di suo già così attivo e pervasivo? E perché complicarsi oltre modo la vita? Ecco, in quegli anni è mancata una reazione positiva: pochi hanno davvero sentito l’esigenza di opporsi a tale deriva, di contrastare tanta disgregazione, di imporre cioè un ordine e un controllo, questi sì umani, ai disiecta fragmenta che ne conseguivano. È mancato chi difendesse le ragioni di Eros. E dell’uomo. Perché non si deve dimenticare che, con tutti i suoi limiti, l’uomo resta pur sempre misura di tutte le cose. Senza l’uomo non ci sarebbe né etica né estetica. L’umanesimo può – deve! – essere pertanto recuperato in forme nuove, che potremmo dire leopardiane, perché proprio ne La ginestra trovano la loro enunciazione più alta e limpida. La dignità dell’uomo non consiste nel suo sentirsi “signore e fine” del Tutto, bensì, al contrario, nella consapevolezza della sua miseria, nel «poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose». È prerogativa dell’uomo quella di essere «autocoscienza del cosmo» e la sua stessa infelicità è indizio della sua «capacità d’infinito». «Tutto [infatti] è o può essere contento di se stesso eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose». C’è, insomma, nell’uomo – che è pascalianamente «una canna», ma «una canna pensante» – un’esigenza di senso che non sempre trova corrispondenza nella realtà. Che tocca a lui soddisfare. Senza pretese di sostituirsi a Dio, ma ordinando il mondo, foss’anche solo il suo piccolo mondo, orientando per quanto possibile la propria vita secondo la propria volontà o cercando comunque in essa e nella realtà che lo circonda una qualche coerenza, le tracce di un disegno, le spie magari di un’oltranza, di una possibile armonia. Oltre il caso e il caos, così da sentirsi «una docile fibra dell’universo».

Lingua, sudore e metrica 05

Questo è compito dell’uomo faber e di quel faber sui generis che è il poeta. Ma per fare questo bisogna essere dei costruttori, non dei distruttori. E visto che la poesia è fondamentalmente una lotta con l’angelo, non è detto che l’esito ne sia sempre positivo. In tal caso, però, il poeta potrà esprimere il proprio disagio o l’angoscia che nasce dai suoi sforzi frustrati. Dovrà comunque essere compos sui e sapere organizzare i molteplici e dissonanti nuclei psichici che, almeno provvisoriamente, compongono la sua unità individuale. Perché la poesia sarà anche un sogno, ma è sempre «un sogno fatto in presenza della ragione». Voglio dire con questo che la poesia è essenzialmente forma, struttura, metrica. E mi sembra che in questi ultimi anni, sia pure con soluzioni e con spiriti diversi, si vada in questa direzione. Rinunciando alla pretesa della novità ad ogni costo, alle provocazioni per partito preso, alle manie incendiarie ispirate dalla sindrome di Erostrato. Nel solco di una tradizione finalmente non più intesa come un ingombro, ma come un faro che agevola il cammino. «Dove il passato non getta più la sua luce dinanzi a sé – diceva Alexis de Tocqueville – lo spirito dell’uomo vagola nelle tenebre».

Postilla sulla leggerezza

di Paolo Repetto, 2 aprile 2016

(Avrei potuto titolarla Post dictum, perché è in effetti queste cose sono state dette in coda alla simpatica discussione seguita all’intervento. Le inserisco non per una coazione al riciclo, ma perché in maniera sia pur rozza riassumono il mio convincimento che la cultura o è impegno etico, o non è affatto)

Mi accorgo che il mio intervento (Leggeri come le pietre) ha sforato di molto i tempi previsti, risultando probabilmente tutt’altro che leggero. Il che mi fa sorgere un dubbio. A dire il vero è lo stesso che da qualche tempo torna sempre, qualsiasi argomento io affronti. Potrei tenermelo, ma non mi sembra corretto, e comunque ormai siamo in ballo. Quindi sarò irrituale e mi porrò io stesso la domanda: Va bene, noi scegliamo perché siamo “leggeri”. Ma fino a che punto siamo noi a scegliere di essere tali? Detto in soldoni: non è che leggeri, rispetto alla quotidianità dei rapporti come in letteratura, ci si nasce, e se non ci sei nato, hai voglia a diventarlo? Calvino giustamente questo dubbio non ce l’ha, o almeno non lo esprime; e in effetti c’entra poco con la sua lezione, che tratta la fenomenologia letteraria della leggerezza, la dà per scontata e parla di una sua applicazione. Ma io ho sconfinato, non solo dal tempo ma anche dall’ambito letterario, e allora mi viene spontaneo risalire a monte e chiedermi se è davvero possibile ‘educare alla leggerezza’. Non è una domanda oziosa. Ci riguarda da vicino, qui e adesso. Incontri come questo, al di là delle limitatissime capacità e competenze di chi li conduce, hanno un senso, sono in qualche modo costruttivi, oppure servono solo a raccontarcela tra noi, che presumiamo di essere leggeri e ce ne sentiamo gratificati? E di fronte ad atteggiamenti diversamente orientati nei confronti dell’esistenza, è una causa persa in partenza?

Non ho una risposta, né sono qui per darne. Infatti sto ponendo delle domande. Il dubbio rimane. Ma proprio la lettura di Calvino, le sorprese che continua a procurarmi ogni volta e le riflessioni che ha messe in moto da subito, mi rafforzano a credere che valga la pena. In fondo, siamo tutti “malati di speranza”. È la malattia che ci fa vivere. E comunque, non ci fosse altro, rimane il piacere di aver riletto le Lezioni americane e di condividere questa lettura.

Non solo quello, però. Io ritengo che intesa in senso ampio, come impegno conoscitivo e habitus etico, la leggerezza costituisca l’unico vero vaccino contro le più allarmanti patologie morali contemporanee: l’integralismo e l’arroganza. E che abbiamo un gran bisogno di farne scorta. L’integralismo è l’espressione più eclatante della pesantezza spirituale: nasce paradossalmente proprio dalla superficialità, dall’incapacità o dal rifiuto di cogliere la complessità del mondo. Nell’uno e nell’altro caso è una forma di arroganza, direttamente proporzionale all’ignoranza. Lo è stata sempre, ma lo è tanto più nella sua versione attuale. Non conoscere il mondo induce ad averne paura, e ad adottare di conseguenza un comportamento aggressivo, una forma di difesa preventiva che si risolve eminentemente nel rifiuto di sapere: appare rivolta contro gli altri, ma ha come vero avversario se stessi, l’”inconscia coscienza” della propria inadeguatezza, che invece di tradursi in consapevolezza, e quindi in spinta positiva a coltivarsi, si risolve in uno sprezzante arroccamento. Rifiutare la complessità del mondo, dopo averla conosciuta, è invece una forma di debolezza, di viltà, che al pari dell’ignoranza pura non può che portare al disprezzo di se stessi, e quindi allo stesso atteggiamento nei confronti degli altri.

Insisto su queste cose perché nelle diverse fenomenologie della presunzione, dell’aggressività, della maleducazione, dell’ignoranza spudoratamente e quasi orgogliosamente sbandierata, l’arroganza mi sembra davvero il male più diffuso tra le ultime generazioni. Un male che non solo non viene combattuto, ma è sempre più tollerato, ad esempio nelle scuole, in nome non si sa bene di quale nuovo progetto antropologico, ma più in generale in ogni ambito di rapporti umani: e viene addirittura coltivato nelle “scuole di management”, quelle dove si forgia la futura classe dirigente economica e politica.

Mi sforzo di credere che un qualche argine si possa fare: e quando tutto congiura a non lasciarmelo credere, mi dico che comunque la resistenza, quali possano essere le prospettive, è un dovere morale. E questo imperativo non può essere incrinato da alcun dubbio.

 

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Attenzione
Attenzione
Attenzione
Attenzione

Attenzione!

Leggeri come le pietre

di Paolo Repetto, 2 aprile 2016

Non conosco nulla al mondo
che abbia tanto potere quanto la parola.
A volte ne scrivo una, e la guardo,
fino a quando non comincia a splendere.
Emily Dickinson

Carlo Levi ha titolato un suo romanzo-reportage Le parole sono pietre. Non so se si tratti di un conio originale o di una citazione: è comunque un bellissimo titolo, che si autolegittima immediatamente perché colpisce davvero come una pietra. E lascia il segno. Lo si può però interpretare in mille modi, e infatti da sessant’anni continua ad essere saccheggiato e piegato agli usi più diversi (è quello che sto facendo anch’io). Può significare, ad esempio, che le parole pesano, nel senso che sopravvivono a coloro che le pronunciano, spesso anche sfuggendo all’intenzionalità originaria; oppure che possono fare molto male, se scagliate con animo malevolo, o che buttate per aria a vanvera possono ricaderti in testa; o ancora, che sono un materiale da costruzione, e rimangono mucchio inerte quando manca un progetto, un’idea a legarle, ma diventano edificio se sapientemente disposte. Ciascuna di queste interpretazioni, nel giusto contesto, ha una sua validità. Occorre però distinguere tra la concretezza del significato, che è positiva, e la pesantezza del linguaggio, che è invece negativa.

Questa distinzione viene mirabilmente chiarita nella prima delle Lezioni americane di Italo Calvino, quella dedicata alla leggerezza. Calvino riabilita un termine che nell’uso corrente, almeno sino all’avvento delle pubblicità delle acque minerali e degli yogurt, ha sempre sofferto di un retrosapore acidulo. Si definisce ad esempio ‘leggera’ una donna disinvolta negli affetti e si qualifica come “leggerezza” un comportamento scorretto, quando si vuole essere benevoli, e l’aggettivo è in genere associato a immagini o concetti negativi, sia pure apparentemente per mitigarli: si parla di una “leggera” imperfezione fisica per usare un eufemismo, o di un pasto ‘leggero’ per non dire che era insufficiente, o consumato senza piacere. Anche il consiglio di “prendere la vita alla leggera” nasce dal presupposto che l’esistere non sia affatto leggero, mentre per converso si lamenta insostenibile la “leggerezza” dell’essere.

Applicando la categoria della leggerezza al campo della letteratura, un settore nel quale essa non gode di una considerazione molto migliore, si scompiglia l’ordine dei valori. Calvino lo fa viaggiando aereo attraverso i secoli e i capolavori e ci regala proprio col suo scritto la migliore esemplificazione di quanto va teoricamente affermando. Spazia nelle letterature mondiali, a partire da quelle classiche, e allinea in un’ideale continuità gli autori apparentemente più lontani (Lucrezio ed Ovidio, ad esempio). Quando poi arriva alla moderna letteratura occidentale identifica in essa due grandi filoni, l’uno facente capo a Cavalcanti, l’altro a Dante. Nel primo caso, dice, siamo di fronte a “una concezione del linguaggio come elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, nel secondo il linguaggio prende il peso, lo spessore, la concretezza dei corpi”.

Lo scrittore non prende partito per l’uno o per l’altro modello: il suo non è un manifesto di poetica. È una proposta di lettura (e di scrittura), nella quale tra l’altro riesce implicito che al di sopra di un certo livello la letteratura approda sempre alla leggerezza, e che i modi in cui lo fa sono diversi, ma non contrapposti. Quello che gli preme dimostrare è che la leggerezza non indebolisce il linguaggio, anzi, gli dà forza. Parla di una gravità senza peso, e per esemplificarla cita Valéry: “Essere leggeri come un uccello, e non come una piuma”. Ecco, essere leggeri non significa per Calvino volteggiare qua e là trascinati dal vento, ma librarsi in volo vincendo la resistenza dell’aria e quella della gravità, per guardare alle cose della terra col necessario distacco e da una sufficiente altezza. Per questo insiste sul Cavalcanti, proponendolo a modello sia come persona, quale è descritto nel famoso racconto di Boccaccio (sì come colui che leggerissimo era), sia come il poeta che ingentilisce passioni e sentimenti attraverso il teatrino degli spiritelli: ma solo per mostrare che in Cavalcanti l’idea di fondo è quella di una organicità del mondo, mentre in Dante prevale piuttosto quella di una organizzazione. Lo fa confrontando due versi quasi identici, che evocano entrambi quanto di più leggero e assieme concreto si può immaginare, la caduta dei fiocchi di neve: e riesce a farci percepire la diversa consistenza delle coltri lasciate dalle due nevicate.

Naturalmente non ho intenzione di seguire Calvino passo passo nella sua selva di spunti e di rimandi. Sarebbe inutile, perché la scrittura di Calvino non ha bisogno di esegeti. Si fa prima a leggerlo, e se ancora non lo aveste fatto, affrettatevi. Cercherò di non guastarvi il piacere. Mi limito quindi a mettere a fuoco ciò che la prima lezione americana ha suggerito a me. Non è un uso improprio: ho il beneplacito di Montaigne, uno che a Calvino piaceva molto, il quale diceva che la parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta. E allora, vado con la mia metà.

Parto proprio dal rifiuto della connotazione negativa: per arrivare ad intenderci è importante stabilire innanzitutto cosa la leggerezza non è. Come dice lo stesso Calvino, la leggerezza non va confusa con la superficialità. Per tenerci ad un recente titolo di successo, la scrittura “leggera” non è quella che viaggia “Tre metri sopra il cielo”. In questo caso la leggerezza non sarebbe nemmeno quella della piuma, al più quella della polvere: ma non è questo il punto. Ciò che a noi importa è che l’autentica “leggerezza” del linguaggio non ha niente a che vedere con la povertà o con l’inconsistenza dei contenuti: al contrario, ha la capacità di rendere accessibile una fondamentale intuizione del mondo. E non solo: ha anche il merito di renderla accettabile. Il linguaggio non è soltanto uno strumento. È il sistema che organizza e moltiplica le possibilità di significato delle parole, e in questo modo fa circolare – e prima ancora fa nascere – le idee. Le parole possono servire per erigere bastioni saldamente ancorati al suolo, pesanti e invalicabili, oppure ad innalzare cattedrali gotiche, con guglie che puntano verso il cielo e le sollevano da terra. Con esse si possono costruire muri, ma anche aprire finestre. Ecco, a noi interessa il linguaggio che alza muri solidi, ma apre in essi delle finestre.

Finestre su cosa, però? Su ciò che sta sotto la superfice. Sulla materialità e sulla complessità del mondo. Più lo sguardo scende nel profondo, più diventa chiara e visibile l’intima connessione delle cose, che sono riconducibili a pochi principi comuni, solo variamente combinati (l’esempio che Calvino porta è quello dell’atomismo e di Lucrezio). La complessità della materia rivela la sua fondamentale semplicità. La leggerezza nasce dunque da una conoscenza profonda: è un modo per sottrarsi alla indeterminatezza del caso, quella si insostenibile, o almeno per non arrendersi ad essa passivamente. Conoscere significa mettersi in condizione di sostenere la visione pietrificante della Medusa, ovvero l’idea dell’insignificanza oggettiva del nostro esistere, senza lasciarsi pietrificare. Calvino cita il mito di Perseo, che cattura l’immagine di Medusa attraverso uno specchio. Quello specchio è la mediazione culturale, che è assieme coscienza di appartenere al divenire naturale e consapevolezza di esserne stati in qualche modo espulsi. La mediazione ci ritaglia un minuscolo frammento di spazio e un infinitesimale lasso temporale nei quali possiamo esercitare la nostra libertà e dobbiamo assumerci la nostra responsabilità. Oggi l’immagine della Medusa la cattureremmo attraverso un obiettivo, saremmo addirittura noi a pietrificarla: ma questo della differenza tra lo specchio e l’obiettivo è un altro discorso, che riguarda una deriva della conoscenza, buono magari per una futura conversazione. Per stasera limitiamoci a dire che lo specchio è il linguaggio. E che il linguaggio è “leggero” quando non altera e non nasconde la verità, ma riesce a creare tra noi ed essa una zona di rispetto nella quale ci sia consentito costruire senso. Dalle finestre si vede la verità, ma si vede anche il cielo che le sta sopra. E non è necessario andare tre metri oltre.

Per poter essere comunicata e condivisa questa conoscenza deve tradursi, nella fattispecie letteraria, in chiarezza e in precisione. La chiarezza riguarda i contenuti. Lo specchio deve essere lucido. Le cose sono semplici, lo sono in una maniera che non ci piace, ma stanno così. E già sapere come stanno le cose comunque ci rassicura: ciò di cui abbiamo davvero paura è l’ignoto.

Ma cosa dobbiamo intendere per precisione? La cura pignola del dettaglio? Se così fosse Leopardi dovrebbe essere immediatamente espulso dal club (come suggeriva Pascoli, per via delle rose e delle viole), mentre ne è invece uno dei membri più autorevoli. In letteratura infatti la precisione non coincide col realismo. Quella che noi chiamiamo realtà è solo una delle sue possibili e momentanee manifestazioni. Un contadino medioevale catapultato nella nostra era rifiuterebbe di credere ai suoi occhi, ma anche lo stesso Pascoli dovrebbe digerire la compresenza sugli scaffali del supermercato di uva, ciliegie e arance al mese di febbraio. La precisione ha a che vedere piuttosto con la coerenza interna al testo, di qualsiasi natura esso sia. E dietro al testo deve esserci un sistema coerente di pensiero, chiaramente intuibile. Borges non ha mai scritto una riga di realtà, ma assieme allo stesso Calvino è l’autore più preciso e leggero che io conosca. La precisione non vieta dunque di inventarsi un mondo, ma impone che le regole che lo governano siano poi rispettate. Chi riesce a farlo, come Lewis Carroll o Tolkien o Philiph Dick, ma anche gli autori dei cartoni animati classici, da Silvestro al Vilcoyote, crea dimensioni che hanno la stessa dignità di esistere delle geometrie non euclidee.

Allo stesso modo, la precisione non vieta di rileggere la natura e la storia con occhiali agli infrarossi, che ne mostrano facce nascoste e inaspettate. Ariosto e Leopardi fanno proprio questo. Ma sanno dove puntare lo sguardo. E quindi, una volta constatato come le cose siano mutevoli e intercambiabili e quanto tutto sia effimero e vano (non solo le cose: pure i sentimenti, gli odi, le passioni, ecc., vanno e vengono e si trasformano), capiscono anche che, in ultima analisi, tutto in qualche modo si tiene, sia pure in una catena della quale noi siamo solo un anello, e abbastanza periferico.

La leggerezza non è tuttavia relativismo. Il fatto che tutto sia intimamente connesso e che ogni cosa possa trasformarsi in un’altra non significa affatto che una cosa vale l’altra: significa, piuttosto, che nulla va mai completamente perduto (altro esempio che Calvino porta è quello di Ovidio e delle Metamorfosi). Il relativismo è negare valore a tutto: la leggerezza è, al contrario, attribuirglielo. Non però alla maniera di certa “postmodernità”, ponendo tutto sullo stesso livello: piuttosto, attribuendo il valore attraverso un segno più o meno, in termini algebrici. Sto evidentemente parlando, a questo punto, non più della letteratura, ma della vita nel suo complesso. La leggerezza comporta, perché profondità, perché conoscenza, perché precisione, l’obbligo di scegliere: ed è un’opzione etica, non solo poetica.

Cerco di spiegarmi. Rimanendo nell’ambito letterario, possiamo affermare che la leggerezza sta nel trattare argomenti seri in modo che rimangano tali, senza per questo diventare grevi. Di conseguenza, non è mai volgarità: è anzi assoluta eleganza. Calvino la identifica, oltre che nel gesto di Cavalcanti, nel passo danzante di Mercutio e nella “melanconia” che caratterizza un po’ tutti i personaggi shakespeariani: la melanconia è tristezza diventata leggera. Come abbiamo già visto, questo alleggerimento non nasce dalla superficialità, ma dalla coscienza che la sostanza ultima del molteplice è un pulviscolo di atomi. Noi non governiamo le aggregazioni di queste particelle (di qui la nostra tristezza), possiamo però scegliere come raccontarle, e in qualche misura come muoverci al loro interno (di qui la melanconia). Porto anch’io un esempio, che mi è suggerito dai movimenti del valzer (non sono affatto un ballerino, ma ho rivisto recentemente 2001. Odissea nello spazio, e la danza cosmica di pianeti e astronavi al suono de Il bel Danubio blu mi ha affascinato). Il valzer fa levitare armoniosamente nell’aria i corpi, è sospensione della gravità. Si volteggia sfiorando appena il pavimento, in sincronia totale con le altre coppie, senza sgomitare, senza creare vicendevoli intralci. È una metafora della società ideale, e anche della narrazione ideale, quella che si realizza nella vorticosa coreografia del poema ariostesco. Al confronto le danze moderne sono pesanti, involgarite da gesti meccanici e bruschi, sovraccariche di un atletismo esasperato: fingono uno scatenamento liberatorio, ma anche il più acrobatico dei ballerini si stacca da terra solo per un momento, per poi ricadere pesantemente. Portano una sfida continua alla gravità, nella quale però alla fine la gravità vince sempre. E sono danze individuali, il cui unico scopo appare quello di guadagnare lo spazio centrale, calamitare l’attenzione, sottraendola agli altri. Non si potrebbe trovare metafora migliore della società attuale e della letteratura che ne sortisce, che hanno quale caratteristica più spiccata la confusione tra leggerezza ed esibizionismo becero.

Proprio perché elegante, invece, la leggerezza rifugge dall’esibizione: è anzi il suo contrario, è il sottrarsi ad ogni forma di spettacolarizzazione. Di sé come del mondo. Sta agli antipodi della smania di dare spettacolo di sé, di mostrarsi senza alcun imbarazzo anche nelle situazioni più degradanti, della disponibilità a lasciarsi umiliare, maltrattare, mettere alla berlina, pur di essere guardati, che sembra aver contagiato l’umanità intera (e non solo l’Occidente: anche gli anti-occidentali hanno ceduto al fascino dell’autorappresentazione). E, allo stesso modo, della compulsione a fare spettacolo di ogni cosa, incorniciandola, falsificandola, esasperandola. Questi sembrerebbero atteggiamenti legati al prevalere della cultura dell’immagine rispetto a quella scritta, e quindi estranei alla letteratura. Ma le cose non stanno così, perché la caduta di ogni inibizione a mettersi a nudo e la volontà di “spettacolarizzare” qualsiasi tema vanno a incidere anche, e pesantemente, sulla narrazione scritta. Il concetto di leggerezza va ridefinito dunque anche in questo ambito, perché in effetti la spettacolarizzazione alleggerisce la realtà, ma solo nel senso che le fa perdere consistenza: e non è questa la leggerezza di cui parla Calvino.

In letteratura il rifiuto dell’esibizione significa, ad esempio, che si può trattare qualsiasi argomento, anche quelli ritenuti più scabrosi, senza indulgere a noiosissime discese nelle cinquanta sfumature della meccanica copulatoria o nei cataloghi più o meno patinati delle fantasie “perverse”. Significa che in realtà non ci sono argomenti scabrosi, ma solo atteggiamenti grevi o stupidi nel trattarli. Che esiste un naturale senso del pudore, che non ha nulla a che fare con quello “comune”, e attiene ai modi, non ai contenuti. “La sventurata rispose” non è un capolavoro di reticenza, ma di eleganza allusiva. Viene da un autore che non parrebbe certo figurare tra le bandiere della leggerezza, ma la raggiunge attraverso quella forma positiva di autocensura che è il rispetto dell’intelligenza altrui (intendo di quella che agli altri si vorrebbe poter attribuire, e che va dunque coltivata e sollecitata).

Un discorso analogo vale per temi come quello della violenza o della morte, che mantengono la loro dignità e serietà solo quando vengono affrontati con una discrezione intesa non a rimuoverne o a celarne la drammaticità, ma a circoscriverne lo spazio, a conservarlo “sacro”. Voglio dire che è necessario salvaguardare quella famosa zona di rispetto, all’interno della quale siano poi chiamati a risvegliarsi e ad agire in ciascuno il senso dell’orrore e della vergogna e la capacità di sdegno o di compassione. Non si tratta di creare o difendere dei tabù: quelli semmai li genera l’ignoranza, che si alimenta del consumo crescente e bulimico di emozioni precotte (ma emozioni è troppo: diciamo di eccitazioni da montagne russe), e quindi necessita di sempre nuove barriere artificiali da abbattere. Si tratta invece di mantenere il controllo su ciò che viene mostrato, sulla qualità e sulla quantità, così da conservargli una leggerezza che lo innalzi a interagire col cervello, anziché con la pancia.

Il problema non è dunque marcare la distanza e la differenza nei confronti di altri argomenti, quelli impropriamente definiti “leggeri” (distanza che pure esiste). È capire che lo stile rappresenta già una metà del messaggio. La sciagurata battuta di Fantozzi sulla corazzata Potemkin non ha aperto la strada alla leggerezza, ma ai film di Pierino, allo squallore del trash e all’horror più truculento. La stagione di dissacrazioni a tappeto dalla quale veniamo ha spazzato via assieme ideologie e idealità, etichette obsolete e buon gusto: i bombardamenti non alleggeriscono mai il paesaggio, si lasciano solo alle spalle pesanti cumuli di macerie.

Dicendo cosa la leggerezza non è, abbiamo già anticipata la sua definizione in positivo.

La leggerezza è infatti allusione: pur nella precisione lascia libero spazio alla nostra capacità immaginativa, senza zavorrarla col peso di immagini e di informazioni superflue, quando non fuorvianti. Mi viene in mente un altro esempio tratto dalla quotidianità. Non so quanto appropriato, ma è il primo che trovo: la differenza che corre tra la saggezza meteorologica popolare, che butta lì consigli fondati quantomeno su una millenaria esperienza, lasciando però ampia facoltà di interpretarli, e la pretesa delle rubriche meteo-previsionali che furoreggiano in televisione, che al di là della spettacolarità sono assai meno affidabili dei proverbi, ma mirano a condizionare e indirizzare la vita, le scelte, le attività. E ci riescono, se è vero che ormai la maggior parte delle persone quando vuol conoscere la situazione del tempo non alza gli occhi al cielo, ma li fissa sul monitor o sul display.

Vi chiederete cosa c’entra con la letteratura. Bene, io penso che la letteratura non debba essere specchio della vita (di quale, poi?): se voglio sapere com’è la vita mi guardo attorno, non vado a leggerlo in un libro, così come se voglio sapere che tempo fa guardo fuori dalla finestra, e non al video. Non deve nemmeno diventare un manuale di istruzioni per vivere, né fornirci le previsioni dettagliate sul clima che andremo ad incontrare. Deve solo farci conoscere le infinite possibilità di sviluppo di quella trama unica per tutti che è appunto la vita, farcele scorrere davanti, rendercene partecipi, sì che possiamo dilatare e arricchire la nostra individuale esperienza, e confrontarla. Ma per ottenere questo effetto, per consentirci di entrare in tutte queste altre vite non può dettagliare, deve alludere, cogliendo in una estrema sintesi, come fanno i proverbi, ciò che l’esperienza ci dice comune, o almeno comunicabile.

Non solo. Deve anche guardare oltre, e immaginare. Cogliere quelle varianti della trama che la storia ancora non ha scritto, o sono state scartate in corso d’edizione, ma affollano la dimensione del possibile e vanno anche oltre. Se la conoscenza è indispensabile, perché riguarda il passato, l’immaginazione copre il futuro, e può nascere solo dalla prima, ma deve poi conquistarsi una sua autonomia. La leggerezza è dunque immaginazione.

Ovvero, è possibilità di utopia: è ciò che consente di immaginare mondi altri, o un altro mondo. Calvino ci fa viaggiare attraverso una letteratura che sospende i corpi per aria, li sottrae alla gravità, da Cyrano a Swift e al Barone di Münchausen. Non è un caso che si arresti proprio alle soglie della fantascienza ufficiale, anche se per un estimatore della scienza come Calvino potrebbe sembrare un paradosso. La scienza mette le ali alla nostra immaginazione, nel senso che di volta in volta ci mostra dei limiti e ci spinge a superarli: ma le sue ricadute tecnologiche quelle ali le tarpano. Se Astolfo viaggia su un cavallo alato e il Barone di Münchausen può ancora sollevarsi da terra tirandosi per il codino, da Verne in poi per andare sulla Luna sono diventate necessarie pesanti e complicate astronavi. L’utopia di cui stiamo parlando non implica la verosimiglianza: non ha nulla a che fare con le Utopie ufficiali, letterarie, scientifiche filosofiche o politiche, meno che mai con quelle che hanno tentato di tradursi in realtà. È utopia nell’accezione più letterale del termine, perché non pretende alcuna trasferibilità nel reale. E proprio per questo può tener conto del fatto che non tutti provano gli stessi bisogni o hanno le stesse aspirazioni, che l’abito che ad uno calza a pennello ad un altro va stretto, o casca da tutte le parti. Lo accetta, ma nel contempo non rinuncia a immaginare un mondo migliore, magari anche a comportarsi per quanto possibile “come se”; e nel farlo già alleggerisce e migliora questo.

C’è però anche un’altra dimensione “utopica”, questa più privata, che non riguarda i modi della relazione con gli altri, ma quelli della convivenza con se stessi. Mi riferisco alla capacità che abbiamo, e che la letteratura acuisce e alimenta, di trasfigurare le nostre esperienze, di trasporle in altri luoghi e in altri tempi, di caricarle di significati che ne cancellino ogni banalità o negatività. In questa dimensione la leggerezza della letteratura può davvero opporsi alla pesantezza del vivere. L’esempio che Calvino pesca in Kafka (ne Il cavaliere del secchio l’uscita alla ricerca di un secchio di carbone diventa un’avventura cavalleresca) ci dice da un lato quanto liberatorio possa essere lo sganciamento dalla realtà che la letteratura consente e ci dimostra dall’altro quanto la levità stessa del racconto già di per sé trasfiguri quella realtà. Non è un effetto consolatorio, si badi bene. Il racconto letterario, quando riesce a staccare dal qui ed ora, dallo specifico del fatto e della circostanza, dal peso di corpi e tempi che lo ingabbiano e lo schiacciano, diventa universalmente coinvolgente. In esso ci si rispecchia, si condivide il tutto estraendone la parte migliore.

Conosco l’esperienza descritta da Kafka: l’ho vissuta più volte, oserei dire che la vivo costantemente. È quella che mi consentiva ad esempio di trasformare i lavori agricoli più noiosi e ripetitivi, come l’azionare per intere giornate la pompa a mano per l’irrorazione, in fantastiche galoppate nella storia e nella letteratura. Stavo al fianco di Ben Hur incatenato ai remi sulla galera, così come negli assolati pomeriggi dell’aratura accompagnavo Lawrence nella traversata il deserto, alla guida del bue anziché del cammello, o sul ponte di una petroliera mi immedesimavo in Billy Budd. Ed è la stessa trasmutazione alchemica che ancora mi spinge, di fronte ad un pasto forzatamente frugale, ad addentare il pane e il formaggio con il gusto e il sollievo che avrebbero provato Primo Levi e i suoi sfortunati compagni, se avessero potuto farlo. Qualcuno potrà leggerci un segno di alterazione mentale. Per me è il modo di vivere tutte quelle vite che l’avarizia della natura non mi concede.

La leggerezza descritta da Calvino è insomma ironia: e anche qui, bisogna intenderci bene sul significato del termine, o almeno su quello che vorrei dargli stasera. Letteralmente ironia (da eirōneía, “dissimulazione”) indica uno stravolgimento del significato delle parole. Si riferisce cioè all’uso delle parole per dire altra cosa, a volte quella contraria, rispetto a quanto dovrebbero significare. È un uso ambiguo, e infatti può essere sfruttato anche per ingannare. Ma, a prescindere dalla bontà o meno delle intenzioni, sganciare le parole dal vincolo obbligato con le cose significa moltiplicare all’infinito le nostre possibilità Letto in positivo, e saltando tutta una serie di passaggi, questo atteggiamento consiste quindi nell’essere seri, ma senza prendersi troppo sul serio. Posizionarsi un po’ fuori della realtà, creando uno spazio ove far interagire ciò che è con ciò che vorremmo fosse, ma mantenendo ferma la coscienza che la realtà è quella. Non a caso l’autore di assoluto riferimento di Calvino è l’Ariosto.

Si impone un’altra precisazione. L’ironia intesa come capacità di distacco non comporta un rifiuto degli altri. Presuppone anzi un’attitudine benevola nei loro confronti: dà credito agli altri quantomeno di essere in grado di capirla. Per questo non va confusa col sarcasmo. Nel sarcasmo non c’è leggerezza, perché esso nasce dal disprezzo, non mira a correggere e addirittura nemmeno chiede di essere compreso, parte anzi dalla certezza di non esserlo. Non che il disprezzo non sia lecito: ma, come diceva Chateaubriand, sono talmente tanti quelli che lo meritano che andrebbe distribuito con estrema parsimonia. Per limitarci alla letteratura, la leggerezza non è provocazione, almeno come quest’ultima è intesa nella maggior parte dei casi dalle avanguardie, ovvero come una forma di sarcasmo, spesso arrogante. Alla letteratura, e alla poesia in particolare, la provocazione è già intrinseca nel momento stesso in cui chiama ad una attenzione diversa sulla realtà. Non è necessario caricarla di un surplus di aggressività, che la rende solo pesante, oltre che effimera. Per questo si leggono oggi persino le poesie di Carducci (altro insospettabile, quanto a leggerezza) e non quelle di Licini, e si continuerà in futuro a leggere le poesie di Caproni o di Vittorio Sereni, mentre saranno giustamente dimenticate quelle di Sanguineti o di Balestrini.

La leggerezza è, finalmente, gioco. Crea una sfera autonoma e può compiutamente dispiegarsi solo all’interno di essa. È una ricostruzione del mondo operata con i limitati materiali che il mondo ci offre ma attraverso l’illimitata arte combinatoria della nostra immaginazione. Tutta la cultura umana è in fondo gioco, ma la letteratura ne è a mio avviso (e anche a quello di Calvino) il campo simbolicamente più significativo. Il gioco non è illusione, ma anzi, assoluta consapevolezza. La sua sfera trascende la saggezza, ma non sconfina nella follia. Sta in mezzo. In essa valgono regole dettate da noi e una visione della realtà che siamo noi a scegliere come terreno. Quindi, una volta in campo, abbiamo più che mai il dovere di fare sul serio. Il gioco deve essere libero, disinteressato e ordinato. Si potrebbe aggiungere “esclusivo”, ma anche questo è un tema scottante, che necessita di una trattazione a parte.

Di conseguenza, per quanto possa sembrare paradossale, credo che la leggerezza passi anche attraverso una certa ritualità, quando questa non si riduce a esibizione cerimoniale. È piuttosto l’irritualità a tradursi sovente in puro spettacolo, in espediente per l’esibizione. Parlo della ritualità intrinseca a certi atti quotidiani, o a certe formule nelle relazioni interpersonali, che si spoglia di tutta la pesantezza formale quando non è fingere in vita ciò che è morto da tempo. Apparecchiare la tavola, per fare un esempio peregrino, anche quando si viva in totale solitudine, oppure l’uso della terza persona quando il livello superficiale della confidenza lo richieda, sono forme di ritualità che possono essere ricondotte a quelle regole di rispetto, di sé, degli altri, del mondo, che Manzoni applicava alla letteratura. Forme che non gravano sul vivere, e sullo scrivere, ma anzi lo alleggeriscono, fornendo dei punti fermi sui quali poggiare i piedi per procedere in sicurezza. I bambini amano sentirsi raccontare sempre la stessa favola, possibilmente con le stesse parole. Vogliono ritrovare ciò che si aspettano, perché questo li rassicura.

La letteratura in fondo fa proprio ciò, racconta sempre la stessa favola, solo lo fa con parole e protagonisti diversi: il che è già più che sufficiente a sorprenderci e a spiazzarci. Ma perché questo spiazzamento abbia un senso, e non spinga solo ad una rassegnata disperazione, è necessario che dalle pagine di un libro giungano indizi che costringano e aiutino ad ingegnarci per trovare la rassicurante intima connessione delle cose: e questi indizi devono stare sotto le pietre-parole, e queste devono essere sufficientemente leggere da poter essere sollevate. E disposte in maniera tale da lasciarci intuire un percorso.

Questa è per me la leggerezza.

Post scriptum. Ho interrotto per qualche minuto la trascrizione a memoria di questa conversazione per uscire a comprare le sigarette. Nel breve percorso sino alla tabaccheria ho incontrato giovani sudamericani dalle incerte occupazioni, i vicini di casa cinesi, il gruppo di anziani o di sfaccendati che si parcheggia regolarmente davanti al bar dell’angolo, due studenti in magno, oltre alle vecchiette che uscivano dal minimarket con le borse della spesa. Non ho potuto fare a meno di chiedermi che cosa potrebbero significare per loro queste parole. Ad esempio, la parola futuro. Al di là delle normali differenze comportate dall’età e dalle diverse collocazioni sociali, che bene o male potrebbero essere immaginabili in una società omogenea, qui si danno delle distanze siderali, che annullano ogni comune significanza dei termini. Le parole che hanno lastricato il cammino della nostra civiltà rischiano di diventare a breve solo le sue pietre tombali.

 

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