di Paolo Repetto, 20 agosto 2025
In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “bella promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”.
Alberto Arbasino
Allora: è stato ripubblicato Venerati maestri di Edmondo Berselli. Per chi non lo avesse ancora letto, o addirittura non sappia chi era Berselli, è un’occasione da non perdere. Ma anche per chi già lo conosce la rilettura rimane comunque uno spasso, e soprattutto rinnova la convinzione che il giornalismo e la professione intellettuale siano qualcosa di diverso da quello che oggi conosciamo. La nuova edizione esce per i tipi di Quodlibet, e arriva a quasi vent’anni dalla prima (di Mondadori). Personalmente ne sono strafelice, e vedremo poi il perché, ma come aspirante da una vita al ruolo di editore mi chiedo se sotto un profilo prettamente commerciale sia un’operazione azzeccata.
Voglio dire: avrà ancora un mercato? Questo non perché dubiti del valore dell’opera, della sua eccezionalità documentaria e anche linguistica: sono anzi convinto che Berselli meriti di figurare nella top ten (o only ten) degli autori italiani dell’ultimo mezzo secolo meritevoli di essere letti e ricordati. Ma da chi potrà essere letto, oggi? Quelli che erano in grado di apprezzarne l’intelligenza, e più ancora il sarcasmo, il libro ce l’hanno da quel dì: quelli che vengono ora e che verranno domani, a parte una sparutissima minoranza, avranno enormi difficoltà a orientarsi nella gimkana di Berselli, che fa riferimenti a protagonisti e vicende di ieri e dell’altro ieri, già messi in soffitta dall’urgenza di concentrare l’attenzione sul presente di stamattina; e probabilmente non avranno neppure le gambe per stargli dietro, abituati come sono a letture non più impegnative di un tweet o di un post.
Comunque, onore alla casa editrice e al suo coraggio. Spero di essere smentito e che la nuova edizione conosca un successo pari a quello della precedente. Almeno non dovrò più preoccuparmi di scovarne copie nei mercatini per regalarle agli amici più giovani. Fornirò solo indicazioni per l’acquisto.

Qualcosa va detto però anche del libro. Non di cosa parla, naturalmente, perché non è materia che si possa riassumere: mi limiterò a dare un’idea di come lo fa. Avete presente l’Ulisse di Joyce? Non dico se l’avete letto, perché non conosco nessuno, me compreso, che sia davvero arrivato sino in fondo. Ma ci avete almeno provato? Ebbene, Berselli procede un po’ allo stesso modo, saltando in apparenza continuamente di palo in frasca, in realtà srotolando la bobina di un unico film, un documentario concitatissimo e affollato costruito attraverso una galleria di ritratti, di scorci ambientali, di baracconi culturali tenuti in piedi da complicità tutt’altro che amicali, fondate anzi sulle invidie e sul livore.
I “venerati maestri” sono per Berselli gli intoccabili della cultura del secondo Novecento (e del primissimo spicchio del nuovo secolo). Ce n’è per tutti, e i ritratti che si susseguono nella galleria sono tratteggiati passando di volta in volta dall’ironia benevola nei confronti di alcuni al sarcasmo feroce per i più, con un criterio che Berselli stesso confessa, e anzi rivendica, come totalmente umorale: “Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla. Non mi piace un romanzo, non mi piace un film, la musica, la televisione, non mi piace praticamente niente di quanto viene prodotto in Italia”. Tuttavia questo criterio non fa mai scadere il racconto nell’invettiva: il quadro che ne viene fuori è una tavola alla Jacovitti, una somma di “mostruosità” quotidiane trattate con irriverente schiettezza, col gusto del pettegolezzo sapido, ma senza mai indulgere ad un atteggiamento inquisitorio. Siamo fatti così, dice Berselli, io compreso: solo che il malumore mi fa vedere le cose più lucidamente, e mi spinge a non accettarle supinamente.
Al contrario, l’atteggiamento della “classe intellettuale” è sempre ipocritamente compiacente: “Noi sappiamo che tutti loro, là fuori, stanno trastullandosi con forme inferiori dell’arte e della cultura, con figurine di un album infantile: ma dall’alto della nostra superiorità mostriamo un volto che si degna di manifestare una specie di simpatia intellettuale, di comprensione, quasi di affetto. Quel sentimento di benevolenza che si rivolge di solito ai parenti non troppo stretti, che si incontrano ai matrimoni o ai funerali: una compiacenza volonterosa quanto distratta, senza un vero coinvolgimento psicologico e affettivo, tanto si sa che ci si ritroverà solo fra quattro o cinque anni, e si rifarà la solita manfrina”.

Berselli si chiede: “[…] come è stato possibile che abbiamo accettato il diktat di un paternalismo critico così ignobile, un peccato di gusto talmente colpevole da risultare senza remissione, un’ipocrisia generale tanto inqualificabile?” E si dà anche la risposta, chiara e perfettamente condivisibile.
Il qualcosa che non va è il conformismo diffuso, l’ovvio dei popoli, il velluto di ipocrisia collettiva che sembra aver coperto con una specie di indiscusso canone artistico, intellettuale e spettacolare, l’Italia contemporanea, in ragione del quale tutti sono ‘d’accordo con tutti, e nessuno obietta mai niente. In privato si parla male di tutti, e si fanno sghignazzate sui grandi capolavori che vengono proposti dai media e sui protagonisti santificati dallo stereotipo; in pubblico, e cioè sui mass media e nelle occasioni ufficiali, ci si guarda bene dall’incrinare anche solo con un graffio il luogo comune e l’oleografia”.
Tanto per non fare nomi: “Erano i tempi in cui andava moltissimo Bertold Brecht, nella particolare mediazione socialista di Giorgio Streheler, e all’Italia intera venivano inflitti drammi brechtiani a iosa, che dovevano piacere a tutti e in effetti a tutti piacevano, o almeno tutti dicevano che gli piacevano, specie quando c’era Milva la rossa … E con Brecht eravamo ancora sul versante colto, quasi accademico. Se si voleva eccedere nella sofferenza e nella cultura, un gradino oltre l’impegno, nello spazio ideale della tortura, c’erano Luciano Berio e Luigi Nono, comminati e inflitti nel segno della grande avanzata culturale di massa”.
Nel paginone jacovittiano alcune figure si stagliano e giganteggiano in negativo; ma non è neanche così, il negativo ha comunque una sua consistenza, mentre di questi Berselli mette a nudo soprattutto l’inconsistenza, l’aria fritta di cui si nutrono e che spacciano alle cerchie dei loro cultori. i[…] come ha fatto Bernardo Bertolucci, raccontare il Novecento in un film di molte ore, talmente ideologico e balordo sul piano storico che a vederlo allora Arbasino scrisse sulla Repubblica un articolo allegramente distruttivo, intitolato L’epica nel pollaio, e a vederlo adesso viene voglia di menarlo.”
Insomma, si va di questo passo. Sul red carpet si avvicendano scrittori, registi, musicisti, critici, editori e filosofi, messi allegramente e perfidamente a nudo nel corso della sfilata. Senza, ripeto, che mai si avverta sentore di acidità. Comunque, tutto questo potrete scoprirlo da soli, leggendo il libro: o almeno provarci, come con l’Ulisse.
Quanto a me, confesso che la mia segnalazione non è imparziale. È più umorale ancora, se possibile, del “falò di conformismi, complessi di superiorità, idee sbagliate, revisioni arrischiate, pensieri forti divenuti deboli” acceso da Berselli. Quando ho letto per la prima volta Venerati maestri mi sono quasi commosso: non mi sembrava vero, non ero dunque così solo come di norma mi sentivo nel mettere in dubbio il talento di Bertolucci, o di Nanni Moretti (scritto sempre così, nome e cognome, perché ci sono altri Moretti tristemente famosi, e perché ormai è diventato un marchio, una griffe); o quando davo in escandescenze durante la proiezione de La vita è bella, e bollavo come emerite cagate le Lontananze Nostalgiche di Luigi Nono (per tacere delle composizioni per chiodo e lamiera) e i Circles di Luciano Berio; oppure ascoltavo le canzoni di Bennato o di Fabrizio De André rifiutandomi di leggerci “messaggi”, iniziatici o anarchici che si voglia, e avvertivo sintomi violenti di orticaria al solo sentir nominare i vari Alberoni e Galimberti e Cacciari, tutta la tribù insomma dei filosofi e dei sociologi “sedentari”, con residenza abituale nei salotti televisivi. “[…] L’altro barbuto, Umberto Galimberti, è uno dei filosofi che riscuotono maggiore successo con le donne, con punte incontrollabili di misticismo e di estasi anche tra le razionalissime professoresse democratiche, soprattutto quando nelle conferenze accenna con ispirata espressione oracolare a sconosciute essenze del pensiero greco […]. Qui Cacciari e Galimberti sono due ombre in un racconto di eventi impalpabili, di evanescenze in cui la Mitteleuropa incontra i mari azzurri dell’a Grecia antica, e l’immancabile Lucio Battisti sullo sfondo canta per le zitelle o mare nero mare nero mare ne […]. Li unisce una certa koiné, dice chi sa.”
Mi ha solo un po’ sorpreso non trovare nel mucchio Agamben e Severino: ma non si può pretendere tutto; e poi i due in effetti hanno mantenuto sempre un atteggiamento “pubblico” molto più riservato. A sputtanarli ci pensavano già i loro discepoli.

Insomma, Berselli dice quello che tutti sanno (e per tutti intendo tutti coloro che avrebbero i requisiti per leggere il suo libro, compresi in buona parte quelli che vi compaiono come protagonisti) ma fingono di non sapere, per convenienza o connivenza, o si rifiutano di saperlo per una forma di soggezione culturale (in parte astutamente indotta, in parte supinamente accettata, o addirittura voluta, perché scarica in fondo della responsabilità di scelte e giudizi individuali): dice cioè che in una società fondata sulle leggi di mercato anche quella che chiamiamo cultura ne rispecchia le logiche: che tutto il Barnum di eventi grandi e piccoli, dai festival cinematografici a quelli letterari e storici e scientifici, alle mostre che ormai girano in tour come i cantanti, alle prime della Scala, ai convegni commemorativi, fino alle marchette autopromozionali televisive o alla presentazione di libri nelle sagre paesane, sono tasselli di uno stesso spettacolo, messo in piedi non per divertirci o istruirci, ma per indurci al consumo della “merce culturale”.
Per cui editori, galleristi, agenti. “operatori culturali”, non si limitano a vellicare i gusti del pubblico, ma li creano, li orientano, e impongono i loro criteri di valore, le loro “scoperte” o “riscoperte”: ogni minima onda da brezza di mare viene ingigantita dall’enfasi mediatica a mareggiata o a tsunami, capace di sconvolgere e risvegliare le coscienze, e loro la cavalcano come surfer provetti. Il racconto che Berselli fa delle “svolte culturali” pilotate prima da Einaudi e poi da Adelphi è tanto spassoso quanto circostanziato: “È così che nasce Adelphi, da una costola di Einaudi, perché ad un certo punto l’ala razionalista prima si insospettisce e poi si infuria al pensiero che l’ala irrazionalista … tenti il colpo gobbo delle opere di Nietzsche, E che cazzo! […] Adesso lo dicono tutti che Siddharta è una cretinata. Ma in quel momento immenso […] fu quello che si dice uno shock cognitivo.” E in questo gioco scrittori, artisti, musicisti, “intellettuali” a vario titolo, accettano un ruolo di manovalanza per partecipare almeno in parte alla divisione degli utili, e se la raccontano tra di loro, finendo poi prendersi sul serio e crederci essi stessi, e si recensiscono e redigono vicendevoli “coccodrilli”. Ogni loro opera o scritto o parola insuffla aria nella bolla di sapone a loro immagine creata dall’industria culturale.
Mi si obietta: ma è sempre stato così. Mica vero. Senza dubbio già le tragedie di Eschilo così come gli affreschi di Giotto e i concerti di Bach avevano una valenza promozionale, erano orientate da una committenza: ma almeno portavano messaggi comprensibili a tutti, che come tali potevano anche essere contestati e rifiutati, e non conoscenze “esoteriche”, cifrate, da accettarsi a scatola chiusa in nome di una presunta autorevolezza “autoriale”: e poi, se quelle opere sono rimaste, se le ammiriamo ancora oggi, è perché la valenza promozionale l’hanno di gran lunga trascesa. Anche le consorterie degli artisti e degli intellettuali già esistevano, ma questi si davano apertamente addosso, come faceva Aristofane nei confronti dei suoi colleghi, colpendo con quell’ironia che è lo strumento critico più valido ed efficace (e che Berselli risfodera: “[…] a tutti noi, chi scrive e chi legge, quando la fede se ne va, per evitare le trappole della superstizione non resta che il gesto eccentrico, il tocco marginale, lo scarto inatteso dell’ironia”). La logica non era quella del mercato, della concorrenza, dei numeri delle vendite, del successo delle esibizioni, delle recensioni: secondo questa logica Leopardi sarebbe uscito immediatamente di scena.
Berselli mi mancherà. Per fortuna posso rileggermi gli altri suoi libri, a cominciare da Sinistrati, con lo stesso gusto della prima volta. Non ho aspettato le ristampe, me li sono procurati tutti per tempo. Il problema è però che di questo passo, nella (quasi?) totale assenza di eredi in grado di tramandarne la lezione, Berselli rischia di essere imbalsamato come l’ennesimo “venerato maestro”, esposto in un piccolo mausoleo frequentato solo da vecchi stronzi nostalgici come me.
Devo sperare solo in qualche “giovane promessa”, ma l’orizzonte appare sconsolatamente deserto.




