Porosità

di Vittorio Righini, 8 aprile 2025

Il titolo sembra fuorviante, ma alla fine è corretto. La lettura di Una voce dal profondo di Paolo Rumiz mi ha offerto l’opportunità di ritrovare e rileggere Napoli porosa del filosofo Walter Benjamin e di Asja Lacis, nome d’arte (Anna Liepina, regista teatrale, militante comunista lettone conosciuta da Benjamin a Capri) micro-libro (e con micro non intendo da tasca, ma da taschino) che mi comprò un amico nel 2021 alla libreria Dante & Descartes che, insieme alla libreria Colonnese, alla Langella e alla Neapolis, rappresentano quello che per me è il sogno di libreria ideale, e tutte a Napoli, una più incantevole dell’altra. Il libro è talmente piccolo che era finito in un anfratto della mia libreria, sommerso da tomi grandi, ho faticato a ripescarlo.

Rumiz – che ultimamente sono solito criticare per il suo pessimismo cosmico, che ha scritto negli ultimi tempi libri veritieri, ma negativi al punto che vien voglia di dire: ma perché, se leggo per distrarmi, devo distruggermi con tutti questi guai? lasciatemi un po’ di sano egoismo, e fatemi leggere – anche – di effetti positivi. Rumiz dicevo racconta fatti e suppone futuri bui con ragione, per carità: però è una lettura triste, che io non voglio affrontare, almeno non solo quella, e al tempo stesso non voglio ridurmi a leggere solo gialli o romanzi, o libri di nani e ballerine con musica di tricche e ballacche e putipù per distrarmi … fatemi anche sentire una sonata di Corelli, come dice Battiato, o un Sakamoto orchestrale, cioè fatemi leggere anche qualche libro che conduca a un po’ di luce, un barlume di speranza, un momento di felicità.

Il succitato libro di Rumiz alterna momenti interessanti ad altri meno, e la ragione è da addurre al fatto che è prevalentemente una raccolta di reportage scritti per La Repubblica tra il 2009 e il 2023. Ecco perché è alterno, ecco perché si muove come un terremoto sulle menti rilassate con forti scosse e lunghe pause di assestamento.

Però i paragrafi su Napoli e dintorni, su cui per me si incentra tutto il libro, sono geniale intuizione e condivisibile ragionamento.

E proprio oggi, 8 aprile 2025, è morto Roberto De Simone (al quale tra l’altro Rumiz dedica il libro), un personaggio che di Napoli ha rappresentato la poliedricità, il genio, la cultura. Così, niente di meglio che ripescare Napoli porosa per raccontare anche la diversità tra Napoli e la Sicilia.

Rumiz domanda a una cuoca perché si rimane a vivere tutta una vita in un posto alle pendici di un vulcano, con ciò che ne consegue: perché vale il rischio, risponde la cuoca. Perché sei in mezzo a un bellissimo Mediterraneo, di fronte a uno dei più bei golfi del mondo. Resti perché la lava rende la terra fertilissima ed è un valido materiale da costruzione. Infine resti, perché come dicono i partenopei “di qualcosa si deve pure murì”.

Il Vesuvio è come un termitaio, brulicante di vita sopra e sotto. Ma mentre risiedere alla base del vulcano è una scelta privata, (il vulcano è pericoloso ma nulla al confronto con la caldera), risiedere ai Campi Flegrei è una scelta obbligata. Infatti, sopra al più pericoloso dei vulcani sotterranei vive una umanità obbligata, che non potrebbe permettersi un trasloco, e che dagli ammonimenti dei vulcanologi non viene nemmeno sfiorata, se ha da pagare bollette, un mutuo, difendersi dalla camorra e da tutte le altre scadenze e balzelliche ci affliggono ogni giorno.

Eppure, se salta il tappo alla caldera succede una catastrofe di dimensioni inimmaginabili. E anche il migliore sismologo al mondo vi dirà si, potrebbe saltare, ma non chiedetemi quando; la Scienza ad oggi non conosce ancora il modo di predire il futuro sismico, ma può solo informare e cercare di prevenire. Ai Campi Flegrei già solo i nomi incutono terrore: Lago di Averno, Acheronte, Sibilla, Cuma e la Solfatara.

Ma veniamo alla porosità (qui mi appoggio al libro di Benjamin e a quello di Rumiz). Walter Benjamin (1892-1940) scrisse nel 1925 a Capri un articolo per un giornale tedesco, e nel 2020 la libreria Dante & Descartes di Napoli fece pubblicare un micro-libro con le aggiunte alla prima redazione. Per Benjamin, “porosità significa non solo, o non tanto, l’indolenza meridionale nell’operare, bensì piuttosto, e soprattutto, l’eterna passione per l’improvvisare”. Leggo che solo un tedesco, abituato a schemi, perimetri e regole, poteva accorgersi di questo modo di vivere, un locale non se ne rende conto perché per lui è scontato. Per Benjamin tutto si mischia, perfino la luce e l’ombra, che non sono in antitesi drammatica come in Sicilia. Un siciliano non avrebbe potuto scrivere “O sole mio”, il siciliano non ama così tanto il sole. Poi, c’è la mescolanza tra i vivi e i morti, che a Napoli permette ai vivi di chiedere ai morti i numeri del Lotto. Quando Maradona vinse lo scudetto sui muri di un cimitero scrissero: “cosa vi siete persi”, per la grande considerazione che si ha dei morti. Napoli è inclusiva, qui non ti sentirai mai un estraneo, la città vive nei bassi, che hanno un significato sia altimetrico che sociale. A Napoli, Kant non funziona, meglio seguire i sensi.

Benjamin definisce gli antri dei portoni, le scale verso l’esterno, i ballatoi, i cortili, come una altissima scuola di regia. E i partenopei escono di casa, la vita è nei vicoli, nei cortili e nelle piazze, davanti ai portoni, non tra le mura domestiche. Se in una famiglia viene a mancare il padre (parliamo del 1925, beninteso) il piccolo andrà in affido automatico, per un tempo determinato, alla famiglia del vicino … se non è porosità questa!

Asja Lacis infatti nota, passeggiando per Napoli con Benjamin, che la porosità non è solo architettonica, ma in tutte le cose, e questa visione condizionerà poi tutti i suoi lavori teatrali. Osservare Napoli nei suoi aspetti diversi ma uguali, opposti ma legati, crea questo amalgama detto porosità. Insomma, in questa città “lutto e gioco, sacro e profano, sonno e veglia lasciano cadere ogni loro differenza tracimando ogni confine e permeandosi”.

E si arriva al confronto con la Sicilia; musicalmente, per il Maestro Riccardo Muti, Napoli è un Sol Maggiore; per altri, la Sicilia è un La minore. I Siciliani elaborano il lutto, i napoletani lo sdrammatizzano. Eppure entrambi convivono con vulcani, terremoti e calamità naturali, ma i napoletani ci stanno alla brasiliana, musicando tutto, mentre i siciliani preferiscono il silenzio, la quiete.

Vittorini narra di donne siciliane disposte a mettersi a letto col marito malato, pronte a morire con lui; le napoletane reagiscono col lazzo, lo scongiuro, la pernacchia. I Siciliani rifuggono il sole, e il loro fatalismo lo si ritrova ad esempio nelle novelle del Verga, tristi e malinconiche, al contrario dei poeti napoletani, esuberanti e pragmatici.  

I siculi il sole lo trovano solo nella loro cucina, che è veramente solare. Eppure entrambi hanno avuto i Borboni e gli Spagnoli, ma forse in Sicilia l’influenza araba e la Chiesa cattolica hanno fatto più danni morali che altrove. Battiato sarebbe stato un intruso a Napoli, Bennato o Pino Daniele dei modesti siciliani.

In parte mi sento di dissentire: Roberto Alajmo, palermitano d.o.c. del 1959, nel suo delizioso libretto Palermo è una cipolla, racconta che anche i palermitani dialogano coi morti, si, forse in modo più intenso, ma anche loro lo fanno in forma molto scaramantica. I siciliani vanno a trovare i morti il 2 di novembre al cimitero, molti si portano una seggiola e qualcosa da mangiare, e inizia un monologo tra il vivo e la tomba capace di durare mezza giornata, con frasi tipo “Ninetta si sposò, Calogero ebbe un maschietto, i vicini emigrarono, lo zio è morto …”. Lo facevano in passato, nelle catacombe dei Cappuccini, dove gli scheletri dei morti venivano tenuti in piedi e completamente vestiti, e i parenti li andavano a trovare e a raccontare loro le novità. Racconta Leonardo Sciascia di un anziano, agonizzante e consapevole di esserlo, attorno al quale parenti e amici si stringevano senza scrupoli per raccomandarsi di trasmettere messaggi di saluto ai compagni trapassati. All’ennesima richiesta, il moribondo ebbe un moto di desolazione: “Per favore, scrivetemeli su un foglietto tutti ‘sti cose, chè sennò me li scordo”.

Sulla morte si scherza anche in Sicilia, si ride per non piangere. E in questo Napoli e Palermo sono assai vicine.

Adoro Napoli, adoro la Sicilia.

Fatalismo siciliano e pragmatismo napoletano, zero a zero, palla al centro.