Per un’ermeneutica del naufragio

di Paolo Repetto, 28 febbraio 2024, introduzione al Quaderno Molte derive … e qualche approdo

Per significare che le cose vanno a ramengo (una percezione che in chi ha raggiunto la quarta età è rimasta costante in tutti i tempi – e non per una semplice consapevolezza del proprio decadimento) l’immagine-simbolo cui si ricorre con maggior frequenza è quella del naufragio, magari semplificata nella locuzione “andare a bagno”. È una rappresentazione della condizione umana, di quella individuale come di quella collettiva, che cuce assieme epoche le più lontane tra loro, e sensibilità culturali e ambientali le più diverse, e che naturalmente viene poi declinata in svariate sfumature. Leopardi ad esempio, che all’epoca de L’infinito aveva solo vent’anni e non aveva mai messo piede su una barca (non lo farà neanche dopo) ma la sensazione di andare a picco la conosceva bene, ne dà tutto sommato l’immagine meno drammatica, parlando di un “naufragar dolce”: e in effetti sparire inghiottito dalle acque, nel mistero del tutto, è già meglio del successivo precipitare nell’“abisso orrido e immenso”.

In genere però non è questa l’accezione dominante. E si capisce bene il perché, dal momento che l’esperienza concreta del naufragio ha sedimentato nella coscienza ancestrale dell’umanità un giustificatissimo timore. I relitti che giacciono in fondo al mare sono stati stimati in più di tre milioni: non so come abbia potuto essere computata questa cifra, ma tendo a pensare si tratti di un calcolo per difetto.

Dunque, coi naufragi conviviamo da sempre. Di epoca in epoca ne attualizziamo l’immagine sulla scorta delle più recenti e clamorose tragedie, piegandone il significato in contrapposizione al rinnovarsi delle illusioni e delle aspirazioni umane. Così il naufragio di Ulisse mantiene la sua valenza simbolica sino a Dante e oltre, per lasciare poi il posto con l’ingresso nella modernità colonialista a quello della Medusa, e successivamente a quello demolitore del mito progressista del Titanic, e oggi a quelli quasi quotidiani che funestano il Mediterraneo tra il nord africa e l’Europa.

I pezzi raccolti in questo volume non ripercorrono però questa storia. Molto più modestamente vogliono testimoniare della sensazione diffusa, e a quanto pare accettata ormai con rassegnata superficialità, che stiamo insensatamente correndo verso la catastrofe definitiva, quella che spazzerà via non più, come nel passato, una particolare civiltà o specifici modelli culturali, economici e sociali, ma l’esistenza dell’intera umanità.

È un sentimento che condivido solo in parte. Certo, non si può non provare sconforto di fronte all’evidente esaurirsi di un esperimento di vita che andava avanti da qualche milione di anni, la cui obsolescenza era in qualche modo già “programmata” e prevedibile, ma che ha sviluppato poi al suo interno un ulteriore processo di accelerazione suicida. Prima o dopo doveva accadere, e se anche la catastrofe non avverrà domani o la prossima settimana, il fatto stesso che si sia presa coscienza della sua ineluttabilità la rende già presente. È però l’effetto di questa coscienza sul nostro modo di pensarci e di rapportarci a intristirmi davvero.

Penso che a questo punto il problema non dovrebbe essere quello di garantire l’eternità della specie: di eterno per quanto ci è dato sapere non c’è nulla. Dovrebbe essere piuttosto il salvaguardare, e per quanto possibile universalizzare e aumentare, i risultati ottenuti attraverso la sua evoluzione culturale. Vale a dire puntare a uscire dalla minorità, come auspicava Kant, anziché a sottrarsi alle leggi naturali, Questo non ci eviterebbe il naufragio, al più potrebbe procrastinarlo di un attimo, ma ci consentirebbe di perseguire una superiore dignità, di giustificare almeno in parte la presunzione sino ad oggi coltivata di essere unici. Purtroppo però i naufragi non hanno mai costituito un’occasione di crescita in questo senso: hanno invece scatenato gli istinti umani peggiori, e la vicenda già accennata della Medusa ne è solo l’esempio più clamoroso.

Oggi la deriva è già palesemente avviata, ci siamo dentro e ne abbiamo consapevolezza, ma l’unico effetto pare essere il rifiuto della responsabilizzazione e del buon senso, la ricerca di ogni sorta di anestetico e di stordimento collettivo. È questo ciò contro cui dobbiamo combattere. Nelle pagine che seguono non troverete indicazioni per costruire zattere o parole di conforto che facciano sperare in una vela di soccorso o in un’isola deserta: semmai, al contrario, l’invito a prendere atto della situazione con estrema lucidità. Ma non per abbandonarsi alla rassegnazione, quanto piuttosto per dare a quel tempo che ancora resta, a ciascuno di noi e all’umanità nel suo complesso, un valore e un senso.