Il povero polpo

ovvero avere grande intelligenza e finire cibo per umani

di Fabio Barbato[1], 10 maggio 2025

Un polpo è, in primo luogo, un animale dotato di un grande sistema nervoso e di un corpo attivo e complesso. Ha cospicue capacità sensoriali e straordinarie potenzialità comportamentali. Mostra nella sua interazione con il mondo uno stile opportunistico ed esplorativo: è curioso, accoglie le novità, e si dimostra proteiforme non solo nel corpo ma anche nel comportamento.

Questi aspetti ricordano caratteristiche che molti studiosi associano alla coscienza sia umana che di alcuni animali più vicini a noi come prestazioni intellettive.

Queste caratteristiche hanno sicuramente colpito l’immaginazione e la fantasia degli umani dalla notte dei tempi, tanto da far arrivare fino a noi varie prove di questo sia in rappresentazioni figurative su substrati diversi, sia attraverso scritti e documenti vari. E questo in culture anche molto lontane fra loro, ma accomunate dalla conoscenza della specie e delle sue peculiarità, sicuramente prima fra tutte, quella della sua importanza come cibo.

Vaso di terracotta miceneo con polpo stilizzato, XII-XI sec. a.C.
  Brocchetta di Gurnià esposta al Museo archeologico di Creta, XVI sec. a.C.

Abbi la mente del polpo policromo
che tale appare quale lo scoglio sul quale vive.
Teognide, poeta greco IV – V sec. a.C.

Onkia siracusana, Testa di Aretusa / Polpo, 430 a.C:
  Mosaico Pompeiano con fauna marina tra cui spicca un polpo che preda un’aragosta, II sec. a.C.
  Stampa del Kraken, 1800 ca
  Ario Maru stava passeggiando sulla spiaggia, perso nei propri pensieri, diretto a Kikai-jima alla ricerca del suo maestro in esilio Shunkan, quando venne attaccato da una piovra gigante. Stampa di Kuniyoshi (datata al 1833-35)

  Tra polpi e pesci blu

amo stare più
tra polpi e pesci blu
che non ove stai tu

Ringo Star nell’Octopus’s garden. The Yellow Submarine parcheggiato dietro uno scoglio
  Polpo nel suo giardino

forme eteree
nel giardino del polpo
vite cerulee

La mia personale storia con i polpi cominciò quando, ragazzino, nei primi anni Sessanta, mi mettevo maschera e pinne e, tra gli scogli di Capo Linaro a Santa Marinella, armato di tridente, mi sforzavo, stante la mia precoce miopia, di scovare l’elusivo e mimetico polpo sul fondale.

Era questo la preda preferita dei miei cugini più grandi e speravo di contribuire anche io a procurare cibo molto apprezzato per i miei parenti, nella casa al mare di mio zio. Con esiti minimali, a dire il vero.

Ma fu in quegli anni che mi innamorai del mare e capii che ero più portato alla osservazione e allo studio che non alla predazione.

Da più grande, verso i 18 anni, cominciai a esplorare il mondo subacqueo con le bombole e ebbi modo di conoscere meglio anche i polpi, trovandone a volte esemplari piuttosto grandi rintanati con aspetto guardingo, intenti, come scoprii in seguito, a custodire e accudire le loro preziose uova.

In quel periodo, avevo ancora un atteggiamento predatorio, per cui ogni tanto ne prendevo uno a scopo alimentare.

Un po’ mi stupiva il fatto che molte volte i polpi non scappavano, anzi allungavano un braccio come a volermi di proposito toccare, per palparmi, “sentirmi”, conoscermi. E si facevano acchiappare abbastanza agevolmente.

Parecchi anni dopo ho realizzato che il loro era un approccio amichevole e che io avevo in realtà tradito la loro fiducia.

Questa constatazione mi rese decisamente poco fiero di me e da allora ho scelto di non cacciare e non mangiare più deliberatamente il polpo.

D’altro canto, con ulteriore senno di poi, occorre anche tener presente il fatto importante della scarsa durata della vita polpesca: uno, massimo due anni nel vulgaris. Dopo la riproduzione, un polpo maschio declina in modo molto rapido, letteralmente disfacendosi. La femmina un po’ meno rapidamente, a causa dell’accudimento della prole, con un ritardo di due o tre mesi rispetto al maschio.

Questo può far riconsiderare l’eticità del pescare e mangiare carne di polpo, quantomeno degli adulti di grossa taglia, che altrimenti potrebbe finire per alimentare i decompositori.

Un elenco, non esaustivo, di caratteristiche
(molto) particolari del polpo

  • Occhi differentemente evoluti, ma simili a quelli umani.
  • Otto braccia ognuna con due file di ventose in grado di ricevere sensazioni tattili, fisiche e chimiche e di attaccarsi con forza a materiali di diversa consistenza.
  • Differenti sistemi di movimento, di cui uno molto rapido a reazione-jet che fa uso di sifone e mantello.
  • Vita breve, non più di due anni nell’Octopus vulgaris.
  • Forti capacità mimetiche e imitative, sia di colori che di forme.
  • Capacità disorientanti verso i predatori, tramite l’inchiostro.
  • Bocca munita di becco corneo, in grado di rompere gusci di molluschi e corazze di crostacei.
  • Presenza di veleno, in alcune specie molto tossico.
  • Cervello complesso, diffuso nelle 8 braccia e centralmente.
  • Corpo interamente molle e capacità di passare attraverso fori di diametro poco superiore a quello dei propri occhi.
  • Rigenera facilmente le braccia perse nel corso di lotte.
  • Carni molto appetite dagli esseri umani e non solo, in varie parti costiere del mondo.

I neuroni degli invertebrati sono spesso raggruppati in numerosi gangli, masserelle nervose sparse nel corpo dell’animale e connesse le une alle altre. Il polpo ha un cervello “centrale” intorno all’esofago e 8 minicervelli più piccoli ognuno in un braccio. Braccio che possiede una certa autonomia motoria e di camuffamento, ma è anche soggetto a coordinazione centrale.

Suddivide l’ambiente in oggetti che possono essere reidentificati molto velocemente nonostante i continui cambiamenti nel suo modo di presentarsi e di camuffarsi.

I polpi sono intelligenti in quanto curiosi e flessibili; sono avventurosi e cacciatori opportunisti, ma anche obiettivi molto ambiti da molti predatori diversi. Devono per questo operare un attento equilibrio tra strategie opposte di attacco e difesa.

Polpo che imita una murena, sua acerrima nemica
Schema evoluzionistico semplificato

Il polpo ha un tipo di “incarnazione” della mente diversa dalla nostra, di una qualità talmente insolita da non corrispondere a nessuna delle consuete prospettive che si vedono negli altri animali.

In effetti vive al di fuori della comune separazione tra corpo e cervello-sistema nervoso.

Un polpo, tra l’altro, può in un certo senso vedere anche con la propria pelle e questo è alla base degli adattamenti repentini al mimetizzarsi in ambienti differenti, sia cromaticamente che morfologicamente.

Il polpo è pertanto quanto di più vicino ad una intelligenza aliena, pur facendo parte del nostro stesso pianeta.

Riuscire a stabilire un contatto intellettivo, una comprensione, un linguaggio comune, rappresenta una sfida eccezionale per l’intelligenza umana. Che in genere si muove lungo binari prestabiliti, soprattutto concependo il linguaggio essenzialmente come suoni o come segni grafici.

Col polpo, come del resto con altri animali, invece valgono altri piani comunicativi, che ci sono stati in parte suggeriti nel commovente documentario Il mio amico in fondo al mare, premio Oscar 2021.

In esso il protagonista, un documentarista sudafricano, racconta la propria esperienza di frequentazione subacquea con una polpessa lungo il corso di circa un anno, che sfocia in una relazione emotiva ed affettiva reciproca e, a suo modo, intensa.

Al di là dell’indubbio bias legato agli aspetti di attrattività emozionale ricercati ed evidenziati ad arte nella trama del filmato, si colgono elementi di “iniziativa” polpesca che risultano sorprendentemente simili a quelli comunemente presenti in specie a noi più vicine quali cani e gatti. E che ci fanno appunto riconsiderare in modo più accurato la nostra supposta conoscenza di questi esseri viventi.

Infatti, soprattutto presso i pescatori, il polpo non gode di buona fama, essendo considerato un animale un po’ tonto, che invece di scappare, molto spesso si avvinghia al braccio o alla mano del pescatore, infliggendo segni della forza succhiante delle ventose o, molto più raramente, morsi del becco corneo, piuttosto dolorosi.

Inoltre, è considerato una preda relativamente facile da pescare, sfruttando la sua curiosità col metodo della zampa di gallina, o il suo desiderio di tana e ripari lisci, mediante vasi di argilla. Poi, può tirare getti di inchiostro, sporcando i vestiti o le membra di chi lo pesca.

Tutt’altra realtà ci viene dai resoconti delle organizzazioni ove si praticano ricerche sulla specie.

Evidentissimi sono i segni di intelligenza osservati in alcuni polpi, sia in cattività che in natura – per esempio la risoluzione di problemi, l’uso di strumenti, l’esplorazione di oggetti, il gioco.

Ma anche scherzi e dispetti, o viceversa manifestazioni di simpatia nei confronti di umani addetti al loro mantenimento in cattività, che vengono riconosciuti individualmente, anche con abiti diversi.

Altra peculiarità, in apparenza contraria all’instaurarsi dell’intelligenza, è la scarsa vita sociale dei polpi. Essi conducono infatti una vita piuttosto solitaria, con poche interazioni, prevalentemente di tipo conflittuale, con propri simili.

Ma anche se i polpi non sono molto sociali nel senso consueto del termine – ovvero nel senso che comporta passare molto tempo con altri polpi –, il loro coinvolgimento con altri animali in qualità di predatori o prede è, in un certo modo, “sociale”, ovvero li costringe a escogitare strategie di sopravvivenza, sia di difesa che di aggressione.

Polpo nella noce di cocco a metà

Tutti questi aspetti dello stile di vita dei polpi sono probabilmente effetti della loro lunga storia evolutiva e sono alla base dello sviluppo del loro grande sistema nervoso, dei loro comportamenti complessi e della loro concentrata e incredibile capacità di imparare in una vita di così breve durata. Da tutto questo emerge un sentimento di meraviglia e ammirazione verso un animale comunemente sottovalutato e largamente incompreso. La decisione di continuare a considerarlo soltanto un cibo ricercato e prelibato è chiaramente facoltà di ciascuno, con le proprie valutazioni personalissime.


[1] Biologo ex ricercatore ENEA, fabio0457@fastwebnet.it

Mai oramai, ma ora!

di Fabrizio Rinaldi, 10 luglio 2021

Si girò e, deciso, s’incamminò verso casa. Non sapeva cosa era successo ma di qualunque cosa si trattasse sapeva di avere ormai speranza e che quel che era stato poteva tornare a essere.
Hubert Selby Jr., Canto della neve silenziosa, Feltrinelli 1994

Nel suo ultimo libro “Il calamaro gigante” , Fabio Genovesi definisce l’avverbio “oramai” come “assassino” perché “non passa mai di moda, e ora come allora serve a non partire, non fare, non provare mai a cambiare le cose intorno a noi. È una parola corta, ma basta a riempire una vita di scontento, giorno dopo giorno, fino all’ultimo, raccontandoci che per essere felici è troppo tardi, ormai”.

Questa parolina contradditoria, nata dall’unione di un avverbio indicante il tempo presente (ora) e della sua negazione (mai), stronca ogni velleità di immaginare un mutamento. È vero che la si può usare anche nell’accezione positiva (“oramai hai vinto”, “ormai è fatta”), ma non ha eguale peso, è meno efficace.

La usiamo invece un po’ troppo spesso per negarci la possibilità di provare strade apparentemente precluse, di azzardare soluzioni alternative, di scavallare i muri che noi stessi ci costruiamo attorno. Insomma, di tentare, quando ci rimane solo quello.

Eppure il nostro istinto di homo ci indurrebbe al cambiamento, ad evolvere per migliorare le nostre e le altrui condizioni. Questa spinta è però riferibile soprattutto alle situazioni economiche e lavorative: su altri aspetti, come quelli sentimentali e relazionali (famiglia, affetti e amicizie), siamo molto meno inclini all’innovazione, tendiamo a considerarli immodificabili. Perché più delicati, ma anche – e forse principalmente – per non rischiare di scompaginare ciò che oggi conta di più: il ruolo lavorativo, la sicurezza e la pace sociale che ne derivano.

Mai oramai, ma ora 02E allora tiriamo avanti così, fingendo di viaggiare verso un mondo più equo, social, solidale, bio, eco, rincorrendo insomma tutti i suffissi di moda oggi, ma in realtà usiamo queste parole per illuderci di credere ancora in un fantomatico progredire, per non guardare negli occhi il mostro marino che con i suoi tentacoli ci avvolge e ci trascina nell’abisso dei nostri convincimenti. “E naufragar m’è dolce in questo mare”, direbbe Leopardi. Tanto, “oramai”, cosa possiamo farci?

Da un lato sta dunque l’apparentemente quieta superficie delle “certezze” che diamo per acquisite; ma dall’altro c’è il nostro personale Pequod, la nostra irrequietezza, con le vele spiegate in direzione del cambiamento e gonfiate dal vento che spira da una società sempre più “liquida”, che i vecchi convincimenti se li lascia alle spalle.

Non so se a scuotere la nave delle nostre certezze sarà la caccia a Moby Dick, la scelta di salpare, o saranno i tentacoli di Kraken (il calamaro gigante), la resa all’“oramai”; ma certamente prima o poi i conti con le creature dell’abisso toccherà farli. È bene quindi essere sempre preparati al momento in cui comparirà un’ombra oscura sotto la chiglia del nostro Pequod.

Mai oramai, ma ora 15

Mai oramai, ma ora 03 Francesco_NegriCosa significhi essere preparati lo testimonia la vicenda di Francesco Negri, un placido curato quarantenne della Ravenna del Seicento. La sua avventura è ricordata anche nel libro di Genovesi, portata ad esempio di come si può non accettare l’“oramai” imposto dal comune sentire. Negri avrebbe potuto continuare a crogiolarsi nelle sue sicurezze perseguendo una carriera ecclesiastica già ben avviata: preferì invece non affogare in quella palude di consuetudini per incamminarsi in un viaggio ai confini del mondo, incurante di chi lo sconsigliava ritenendolo “oramai” troppo vecchio per un’esplorazione che lo avrebbe portato in terre ignote e inospitali e dava per certo che non sarebbe sopravvissuto.

Mentre la moda dell’epoca celebrava e favoriva i viaggi nel medio e nell’estremo oriente, lui divenne il primo esploratore a spingersi fino all’estremo nord dell’Europa mosso semplicemente dalla sete di conoscenza e di ignoto.

Mai oramai, ma ora 04 Itinerario dei viaggio di NegriImpiegò tre lunghi anni (dal 1663 al 1666) per risalire tutto il continente e raggiungere Capo Nord, e durante il viaggio raccolse dati inediti su quelle terre estreme, la Svezia, la Norvegia e la Lapponia, dove “nessun frutto vi può rendere per l’estremo freddo al testimonio de’ scrittori; e pure vi si sostenta il genere umano. Non si trova altra terra abitata, che si sappia, sotto il suo parallelo, e la zona glaciale artica è totalmente ignota. Dunque è forza che quel paese abbia qualità agli altri non comuni, ma singolari; dunque sarà la più curiosa parte del mondo per osservarsi”.

Mai oramai, ma ora 05 sciNel suo peregrinare imparò dai locali lo sci di fondo e sicuramente fu il primo italiano a praticarlo: “Hanno due tavolette sottili, che non eccedono in larghezza il piede, ma lunghe otto o nove palmi, con la punta alquanto rilevata per non intaccar nella neve. Nel mezzo di esse sono alcune funicelle, con le quali se le assettano bene una ad un piede e l’altra a l’altro, tenendo poi un bastone alla mano, conficcato in una rotella di legno all’estremità, perchè non fóri la neve; ovvero anche senza tal bastone camminano sopra la neve, in tempo che non è agghiacciata, nè atta a sostentar un uomo”. Naturalmente, trattandosi di un viaggiatore atipico, la sua relazione non suscitò alcuna attenzione, tanto che fino alla fine dell’Ottocento in Italia nessuno praticò lo sci, neppure sulle Alpi.

Mai oramai, ma ora 06 Francesco_NegriUsava il latino come lingua franca con i pastori protestanti che presidiavano il lontano territorio, e questi divenivano suoi mediatori con le popolazioni locali. A differenza di altri “turisti dell’esplorazione” venuti dopo, aveva grande considerazione del popolo Sami, delle sue pratiche quotidiane e religiose. Annotava ogni particolare, insieme alle storie, alle leggende e alle minuziose descrizioni di animali artici. Aveva poi un approccio molto pragmatico rispetto all’evangelizzazione dei Sami: liquidava le pratiche sciamaniche come marginali e sottolineava invece la spontanea generosità di quel popolo.

Mai oramai, ma ora 07 Viaggio settemtrionaleUna volta rientrato a Ravenna si dedicò ad una puntigliosa revisione dei dati raccolti nel suo peregrinare parlando con pescatori, contadini e curati di quella parte del continente ancora in gran parte inesplorata, a verificare la correttezza dei dati e l’attendibilità delle fonti. Tre anni di viaggio e trent’anni per ponderare e redigere il volume “Viaggio settentrionale”, che non fece neppure in tempo a veder pubblicato, poiché morì nel 1698. Gli eredi riuscirono a stamparlo solamente nel 1700.

La cura dei testi durata per ben tre decenni ci fa immaginare quanto abbia voluto tornare sugli anni della sua peregrinazione, rivivendo almeno in parte le emozioni provate. Ciò gli permetteva probabilmente di sopportare la monotona quotidianità della vita di curato di campagna, intento a recitar messa, assolvere i peccatori da atti e pensieri impuri e predicare i sacramenti. La sua era stata decisamente un’ottima soluzione per sottrarsi all’“oramai”. Aveva dato sfogo alla sua natura più intima, che così descriveva: “Mi stimolò sempre sin da’ primi anni il genio curioso, inseritomi dalla natura, a far qualche gran viaggio per osservar le varietà di questo bel mondo; mi s’accrebbe poi col tempo questo desiderio”. Dopo, non c’era tempo per i rimpianti, doveva sistemare i dati raccolti.

Negri è un esempio di come si possa reagire ad una vita di comode certezze per intraprendere un viaggio dall’esito incerto, ma che faccia rivivere le emozioni provate in gioventù o viverle per la prima volta in assoluto. In fondo tutti invidiamo i bambini, non tanto per la loro giovinezza, ma per la gioia e la paura che vediamo nei loro occhi quando provano qualcosa di nuovo; che sia reggersi dritti in piedi, le prime simpatie, i sapori dei cibi, gli esami scolastici o le paure di cadere. Mi piace immaginare gli occhi di Negri come quelli di un bambino, spalancati su sempre nuove meraviglie.

Mai oramai, ma ora 08 polpo-colossaleMai oramai, ma ora 09 tutto-chiaro-troppo-tardiArrivato alla soglia dei cinquant’anni, posso affermare di essermi costruito la mia (credo) solida Pequod che naviga su un oceano tranquillo, fatto di famiglia, amici, lavoro e certezze. Al momento non vedo l’ombra oscura sotto la chiglia: ma temo comincino ad aggrapparsi ad essa alcuni tentacoli degli “oramai”, riferiti a ciò che non ho fatto, provato e visto. Dovrò premunirmi per tempo, per abbozzare almeno una risposta adeguata, prima che mi ghermiscano. Levigare l’arpione e controllare le vele per tentare una fuga, quando il Kraken mostrerà il suo occhio ammaliante.

Gli ’“oramai” infatti si avvinghiano silenziosi al corpo e alla mente per neutralizzare ogni pulsione a uscire dal consueto, dalle abitudini lavorative, comportamentali e sentimentali, per convincerti che è troppo tardi per nuove scelte. Suggeriscono la rassegnazione.

Mai oramai, ma ora 10 incazzatureNon sto dicendo che si debba invece correre dietro ad ogni nostro sogno: nella vita occorre anche essere realisti, consapevoli delle nostre reali capacità, sapendo apprezzare quel che la stessa ci ha già dato, senza stare sempre sul piede di partenza per una prossima tappa. In caso contrario si va incontro ad una insoddisfazione perenne e davvero infantile. Ma nemmeno credo che sia tranquillamente praticabile la via della rassegnazione. Non è nella natura della nostra specie sentirsi appagata: e allora il problema sta semmai nel capire a cosa realisticamente aspira: e una volta che lo ha capito, non rinunciare a coltivare quel sogno. Questo implica necessariamente la messa in discussione delle certezze già raggiunte, che non significa buttare all’aria tutto, ma nemmeno permettere a ciò che ci circonda di diventare un vincolo paralizzante. In fondo, solo il mutamento ci aiuta a progredire nella conoscenza dei nostri limiti, e a volte è necessario intraprendere una strada differente anche solo per constatare che non porta da nessuna parte. Perlomeno vivremo, dopo, senza quel rimpianto.

Se invece ci lasciamo avvolgere dai tentacoli dell’“oramai”, di rimpianti ne accumuleremo un sacco. Scegliere è esplorare, per non arrivare alla fine della vita recriminando su tutte le occasioni che ci siamo negati.

Mai oramai, ma ora 13 Corto Maltese

Di rammarichi ce ne sono di infiniti esempi. Mi concedo di ignorare i viaggi evaporati, le carriere lavorative o politiche gettate alle ortiche, le mancate avventure sportive e persino culturali, ma non si può non dar voce al principe degli “oramai”: quello verso gli amori impossibili. Ogni tanto – ad ognuno, anche chi lo nega – il vento comincia a soffiare verso di essi, ma l’abbraccio della quotidianità costringe alla bonaccia. Che sia giusto o sbagliato rimanere fra i tentacoli non sta a me dirlo (anche perché rischierei il ben servito …), ma alcune constatazioni si possono azzardare.

Mai oramai, ma ora 11 uomo&donnaNell’epoca della precarietà lavorativa, dei costanti mutamenti di idee, convinzioni, ideologie e credi, restiamo ancorati ad un modello di rapporto sentimentale monogamo, figlio di secoli di letteratura romantica e decenni di televisione sdolcinata. Probabilmente è una contraddizione. Rischiando il linciaggio, affermo un’idea non originale: l’amore è il sentimento più sopravvalutato, a discapito di altri più fedeli e liberi (amicizia). I tentacoli della consuetudine, anziché trattenerci, potrebbero spingerci lontano dalla bonaccia, verso gli amori irrealizzati, ma poi sapremmo davvero compiacerci di aver raggiunto l’agognata “meta” o avremmo il rammarico di aver svelato ciò che è bene che resti nei nostri più intimi pensieri, al fine di preservarne l’illusoria speranza? Per non rischiare, ancora una volta di ripete anche qui l’ennesimo “oramai”.

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Un “oramai” che non accetto riguarda la possibilità di assistere a ciò che Francesco Negri ha descritto, senza peraltro riuscire a dargli un nome: “Un’altro effetto ho veduto, che è ordinario in questa zona glaciale, e non l’ho mai veduto, nè inteso esser seguito al mio tempo in Italia; e qui si vede la notte serena l’inverno, e in varie figure. Una volta io vidi come una lunga nuvola, che cominciava a tre gradi in circa sopra l’orizzonte, e ascendendo al zenit, o punto verticale, andava a terminare all’altra parte, quasi in altrettanta lunghezza. Era così chiara e trasparente, che rendeva qualche poco di lume fino a terra: si piegava in tante forme, ora di arco, ora di corona, ora di serpe e d’altro. […] Stimo dunque che sia un corpo di sua natura rilucente nelle tenebre senza fiamma, e non nell’alto etere, ma nelle regioni dell’aria; poichè non si vede da paesi remoti”.

Quel diavolo d’uomo aveva visto l’aurora boreale. Il bello è che nemmeno l’aveva cercata, gli si è presentata lì. Ma lì c’era anche lui: con la sua scelta “scriteriata” si era messo nella condizione di vederla. E allora, posso e devo vederla anch’io, cascasse il mondo.

Ma più in là. “Oramai” siamo fuori stagione.

Mai oramai, ma ora 12 Frederich Church Aurora 1865

Collezione di licheni bottone

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