Doppio Stevenson

di Paolo Repetto, 16 agosto 2025

Il mio personalissimo Pantheon ospita due personaggi quasi omonimi (la Treccani sentenzia che si potrebbe usare in questo caso il termine “cognonimi”, ma nessuno ha mai osato tanto). Uno, protagonista per la letteratura, fa di nome Robert Louis, mentre l’altro, campione nello sport, porta quello decisamente impegnativo di Téofilo. Il nome di famiglia di entrambi è Stevenson. Non sono parenti, anche se il secondo potrebbe discendere da un qualche mercante o proprietario scozzese di schiavi, avo del primo (e allora che si fa, scatta la cancel culture?).

Di Robert Louis ho già scritto in più occasioni, anche recentemente, mentre Téo credo di non averlo mai citato (rispettando, tutto sommato, la discrezione che ha caratterizzato la sua esistenza). Eppure è stato per me a lungo uno dei santi patroni sportivi (e lo è tuttora): eccelleva in uno sport tra i miei preferiti (ma tra i pochi non praticati: ho indossato i guantoni una sola volta), e nella categoria principe, quella dei pesi massimi, Ad affascinarmi era però soprattutto il modo in cui quello sport lo interpretava. Téo è rimasto al vertice del pugilato dilettantistico per quindici anni, e in questo lasso di tempo, enorme per una attività che ti brucia molto velocemente, ha conquistato tre titoli olimpici (dal quarto è stato escluso per vicende politiche) e tre titoli mondiali dei dilettanti, ha vinto trecentodue incontri e ne ha persi meno di venti. Non è mai passato al professionismo, malgrado le offerte miliardarie che piovevano, in quanto cittadino di uno stato, Cuba, che il professionismo sportivo non lo contemplava. Ha motivato così la sua scelta: “Cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all’amore di otto milioni di cubani?”. Lasciamo perdere che il suo fosse in realtà un dilettantismo dorato, che abbia potuto godere di privilegi e di liberà sconosciute ai suoi connazionali: conosciamo tutti benissimo il valore attribuito negli stati totalitari allo sport come strumento di propaganda. Di fatto comunque Stevenson aveva la possibilità di scegliere, e ha scelto di rinunciare ad un benessere ben più cospicuo di quello garantitogli dal regime castrista, ma soprattutto di rinunciare a scrivere il suo nome nell’albo maestro della storia del pugilato, quello professionistico. Questo non ne ha affatto sminuito il valore. Tutti gli appassionati e gli intenditori concordano nel pensare che avrebbe tranquillamente dominato anche nella sfera maggiore. Non a caso anche “il più grande”, Muhammad Alì, dopo che era tornato campione dei massimi battendo Foreman rifiutò decisamente l’ipotesi di un incontro “chiarificatore” con Téo, da svolgersi in deroga alle graduatorie delle federazioni ufficiali e con la prospettiva di una vagonata di soldi. Sapeva che Stevenson lo avrebbe ridimensionato, e soprattutto che lo avrebbe fatto giostrando sullo stesso suo piano, quello dell’intelligenza e dell’eleganza.

Credo infatti che a convincere Stevenson a rimanere nell’ambito dilettantistico siano stati anche i diversi criteri di valutazione in vigore nelle due diverse fasce. Tra i dilettanti uno come Mike Tyson non aveva avuto storia, e infatti non si qualificò per la partecipazione alle Olimpiadi, in quanto privo delle più elementari nozioni pugilistiche, ma soprattutto completamente estraneo allo spirito che aveva fatto definire un tempo la boxe come noble art: per lui ogni combattimento non era un momento di sport, ma un pretesto per dare sfogo alla sua attitudine alla rissa. Tèo era l’esatto contrario, una fantastica combinazione di potenza, di velocità, di intelligenza e di eleganza: e lo era tanto sul ring che fuori.

Forse per questo, se vado a cercare sul web la classifica dei più forti pesi massimi di tutti i tempi, non lo trovo neppure citato. Non è per via del fatto che non ha combattuto tra i prof: sono proprio la sua diversità, la sua statura morale, in questa epoca che valorizza solo l’eccesso, a escluderlo dalle graduatorie, quasi a volerlo cancellare dalla memoria. Per fortuna a questo punto interviene a ripristinare i giusti valori il suo illustre cognonimo Robert Louis: “Il tuo coraggio non è meno nobile perché nessun tamburo batte per te e nessuna folla grida il tuo nome”.

Al contrario di London, Stevenson il pugilato non l’ha mai praticato, la sua costituzione e la sua salute non glielo hanno permesso: ma quanto a coraggio era pienamente in diritto di dire la sua, e anche quanto alla scarsa rilevanza della fama come metro del valore di un uomo.

Parlava a tutti, ma soprattutto a chi avrebbe raccolto il testimone del suo nome. Gli Stevenson sono molto solidali tra loro, e molto saggi.