Alan Alexander Milne
di Vittorio Righini, 29 novembre 2024
Non fatevi ingannare da questa foto di Milne (Gran Bretagna, 1882 – 1956), ma è l’unica che ho trovato riproducibile. In base a questa foto, potreste pensare d’essere di fronte a un emulo di Sherlock Holmes. Invece Milne ha scritto un solo romanzo giallo nel 1922, The Red House Mistery (nella versione inglese), Il Dramma di Corte Rossa nell’edizione italiana, che personalmente non mi è dispiaciuto ma verso il quale ero predisposto ad affrontare uno di quei romanzi (come scriveva Buchan, vedi precedente puntata) “di elementare tipo di narrativa”. Elementare sì, ma forse un po’ più tradizionale rispetto ai 39 Scalini e abbastanza indovinato nel suo svolgimento. Ho deciso, nel vostro interesse, di non continuare a scrivere le mie impressioni su questo romanzo, ma fare un copia e incolla (in sintesi, e saltando qui e là, mi si perdoni sennò andavamo troppo per le lunghe) della introduzione scritta all’epoca per la edizione del 1976 Oscar del Giallo Mondadori:
«Questo libro potrà irritare il lettore, o sembrargli altrimenti piacevole. Perché è il condensato di tutto quanto non si sopporta più in un poliziesco. È talmente datato da sembrare un pezzo di antiquariato […] è il rispettabile capostipite di una lunga e alla fine lagnosa famiglia di britannici gialli campestri, arredati da personaggi fissi […] ricchi proprietari, colonnelli a riposo, esquires, servitù, treni locali e gioielli, rette ragazze, deboli dandies, ponderati poliziotti locali. Gli ingredienti di questa Arcadia gialla compaiono identici e blandamente dissacrati nei romanzi umoristici di Woodhouse… Erano gialli ‘‘perbene’’, insomma, e si deve dire che fu una cosciente e redditizia conversione editoriale di classe. Tutti gli anni Trenta sono farciti di questi romanzi, nonostante i gialli americani, nonostante Simenon”.
E qui interrompo la prefazione, perché anche questo severo recensore ammette che quello che scrive Milne è quello che vuole leggere la gente, in terrazzo o in giardino (se ne avete uno) oltre che sotto il solito ombrellone. Raymond Chandler attaccò Milne per questo suo libro, reo di noncuranza strutturale e di colpevole dilettantismo. Rex Stout invece, intravedendo la formula alla Agatha Christie, definì il libro incantevole.
Ma la cosa più divertente è che a Milne di tutte queste chiacchiere non importò affatto. Il nostro infatti si è guadagnato il plauso e l’affetto di quasi tutti i bambini nati nella prima metà del ‘900, per aver inventato il dolcissimo personaggio di Winnie the Pooh, orsetto pupazzetto, che, accompagnato nei due libri dal disegnatore E. H. Shepard, fece la fortuna di Milne e delle sue generazioni successive, che ancora si dividono i diritti pagati dalla Disney almeno fino al 2027, con un successo planetario tra libri, cartoons, pellicole d’animazione e merchandising d’ogni tipo.
(Va detto che Winnie the Pooh in Italia non ha suscitato lo stesso entusiasmo che nei paesi anglosassoni; il successo enorme è in effetti maturato oltre Manica e oltre oceano, tanto da farlo paragonare a Lewis Carroll e alla sua Alice).
Riprendo l’introduzione, a spizzichi e bocconi: “Il libro è scritto per lettori svagati, per gentili signore che non vogliono essere oppresse, per giovani che abbiano da riempire un’ora troppo calda, per vecchie signore che amano sonnecchiare […]”. Queste ultime considerazioni mi paiono un po’ troppo snob (io, in effetti, sono un vecchio signore che ama sonnecchiare, e allora?) e il libro non è così debole come sembra dipingerlo il recensore.

Poi, sempre lo stesso curatore si butta in una postfazione, a mio parere evitabilissima, del tipo “ve lo avevo detto? delusi? era chiaro?”, piena di considerazioni sui presunti errori letterari di Milne nella costruzione del giallo. Ci spiega come lui stesso avesse intuito il finale in anticipo, del perché questo andava detto e questo no …: insomma, una postfazione dalla quale si evince più che altro la sua profonda autostima.
Il recensore in oggetto è Claudio Savonuzzi (1926-1990). Fu un giornalista del Resto del Carlino, de La Stampa, e lavorò alla Rai come redattore nella metà degli anni ‘60 in un programma che andava in onda alle 22, TV7; era un rotocalco interessato (e interessante) ad argomenti nazionali e internazionali, una sorta di Report non politicamente estremizzato ma moderno per quei tempi. Savonuzzi era un uomo di profonda cultura e spesso si occupava di arte sui quotidiani per i quali lavorava. Forse era solo un po’ troppo immerso nella parte, ma i giornalisti che poi scrivono libri (tantissimi, sono tantissimi, e alcuni di loro sembra abbiano un diritto divino per pubblicare libri, dato il contesto lavorativo da cui provengono, e pare siano intoccabili, come una casta indiana).
Non sto a tediarvi con le note sulla vita di Milne, non sono poi così interessanti, ma vi invito alla prossima puntata, l’ultima di questa piccola serie, che coinvolge il primo vero autore di romanzi gialli e il suo (lunghissimo …) capolavoro.![]()


