di Paolo Repetto, 2016
Autunno, cadono i miti. Già lo scorso anno avevo dato l’addio a quello della mia invulnerabilità: ieri sera è stata la volta dell’inviolabilità della casa. Un ammiratore ha pensato bene di dare un’occhiata all’interno senza disturbare. Per sapere che era deserta gli è bastato assicurarsi, dal portone spalancato del cortile, che non ci fossero auto e che le finestre fossero tutte buie. Ha caldamente ringraziato trovando aperto il magazzino (lo è sempre) e non ha creduto ai suoi occhi alla vista della scala componibile che avevo messo al riparo giusto un paio d’ore prima. L’ha portata sul retro, è salito all’altezza delle finestre del primo piano, ha rotto un vetro di quella che dà luce alla scala interna, ha bestemmiato perché non ho riparato la maniglia e quindi la finestra non si apre, si è spostato di un paio di metri e ha tentato con maggior successo quella della camera di mio nipote. La fortuna a questo punto si è un po’ distratta, ma non lo ha abbandonato del tutto. Aveva appena iniziato a rovistare nei cassetti quando è rientrato mio figlio. Emiliano non si è diretto immediatamente in casa sua: avendo visto una luce filtrare dalle persiane del piano superiore ha pensato che come al solito l’avevo dimenticata accesa, è salito al mio appartamento per spegnerla, e quando è ridisceso al suo ha trovato il portoncino socchiuso. Ha capito al volo, si è precipitato dentro, ma non ha trovato nessuno: mentre lui saliva da me l’intruso se la filava per le scale, uscendo sul retro.
A parte i vetri, nessun danno. Non manca nulla, anche perché in casa non c’erano né preziosi né denaro da prendere e il visitatore non era evidentemente un collezionista di soldatini o di supereroi. Si è mosso persino con una certa discrezione, scavalcando il campo di battaglia permanente che occupa il pavimento della camera di Leo senza abbattere nemmeno una fortificazione. Ha riposto ordinatamente per terra o sul letto gli indumenti che stipavano l’armadio e ha lasciato socchiusi ante e cassetti. Un professionista serio, o comunque una persona ordinata. È da pensare che lavorando al buio, o quasi, gli sia preso anche un mezzo coccolone quando si è visto fissare dagli occhi sbarrati di Spike, il coniglietto nero di Leo, che ormai è grosso come un cane. Comunque, è andata bene così, anche se è difficile non pensare a come avrebbe potuto finire se mio figlio avesse aperto subito la porta. Non sarei qui ora a scriverne e a filosofeggiarci sopra. Resta la ferita morale, ed è profonda. Lo sarebbe per chiunque trovi violata la propria abitazione, ma per me lo è doppiamente, e il motivo ora lo spiego.
L’inviolabilità della casa era davvero diventata un mito. Non ero il solo a coltivarlo. Mio padre faceva risalire il reverenziale rispetto che la circondava a quella volta in cui sorpresi in cortile due zingari, emergendo dal giardino completamente panato di sudore, di polvere e della fuliggine degli sterpi che stavo bruciando. Non fecero neanche a tempo ad accorgersi della roncola che tenevo in mano, tanto velocemente se la diedero a gambe. Lui aveva assistito alla scena dall’interno del magazzino, e sosteneva che avessero segnato il portone come l’angelo sterminatore le case degli ebrei in Egitto. Sembrava fosse davvero così, perché a dispetto dell’aumento esponenziale dei furti nelle abitazioni vicine e del fatto che tutto continuasse a rimanere aperto, non c’erano mai più stati tentativi. Io invece sono convinto che proprio il trovare le porte aperte induca al sospetto: i malfattori, che sono gente seria, non si fidano. Così nella casa, che rimane molto spesso incustodita, non ci sono porte blindate, sistemi d’allarme, telecamere o sensori. Non solo. Quando eravamo presenti la porta della mia abitazione non è mai stata chiusa, nemmeno di notte. Mi sarei sentito soffocare, e ho costretto all’idea anche chi abitava con me, non so quanto rassegnato o quanto contagiato dalla mia inossidabile sicurezza. La cosa si ripeteva persino in viaggio, negli alberghi, e un paio di episodi incresciosi (ubriachi completamente nudi che si materializzano alle tre di notte vicino al tuo letto) sono stati vissuti e poi raccontati come aneddoti comici.
Tutto questo fino a ieri. Ora, naturalmente, dovrei cambiare abitudini, non fosse altro per le pressioni esterne, anche se personalmente al fatto in sé non do un grosso peso. Lo do invece al risvolto tutto personale che una particolare circostanza gli ha fatto assumere. Ho davvero sempre nutrito una gran fiducia, in generale, nell’umanità, e ne sono stato ampiamente ripagato. Forse dicendo “in generale” mi sono allargato un po’ troppo: diciamo piuttosto che ho concesso un credito totale alle persone che mi ispiravano fiducia, e nessuno l’ha mai delusa. Sono convinto che in molti casi proprio la sorpresa di fronte a questo atteggiamento le abbia motivate a dare il meglio di sé, a responsabilizzarsi, anche quando magari l’attitudine iniziale era opposta. Nei confronti degli amici la cosa mi sembra ovvia, ma quelli te li scegli, e quindi va da sé: io l’ho invece sperimentata anche con vicini di casa, conoscenti occasionali, compagni d’avventura per un trekking o un imbarco, e nel lavoro con colleghi, studenti, ecc… Ha sempre funzionato, e resto più che mai convinto debba funzionare così.
L’aspetto più brutto di questa particolare vicenda è che so, praticamente con certezza, chi era il visitatore. Ho sommato quattro indizi e la soluzione è arrivata da sola, confermata poi dal fatto che mio fratello, per tutt’altra via, è approdato ad una identica conclusione. Non è una congettura dettata dalla rabbia e dall’emozione, perché sulle prime non mi era neppure passata per la mente, e quando si è affacciata mi sono sforzato sino alla fine di non crederci. Il visitatore è una persona cui avevo concesso fiducia, a dispetto della fama negativa che lo circonda in paese: una persona che mi era sembrata orgogliosa e grata di questa mia disposizione, diversa da quella di tutti gli altri. Ci siamo scambiati favori, è sempre stato disponibile, gli ho procurato lavoro. Al punto che ancora adesso, mentre scrivo, non voglio credere ad una intenzione malvagia (almeno nei miei confronti: infatti è entrato in casa di mio figlio, col quale i rapporti non sono altrettanto buoni).
Il risultato è che non ho nemmeno presentato denuncia ai carabinieri (del resto, quando abbiamo segnalato il fatto ci hanno fatto chiaramente intendere che sarebbe stato tempo perso) e non ho intenzione di fare alcunché – ho solo degli indizi, per quanto eloquenti. Ma probabilmente non lo farei neppure se avessi in mano delle prove. Ho solo sistemato uno di questi indizi, quello più evidente, in modo che l’amico sappia che l’ho trovato, e capisca che ho capito. Credo che questo sarà sufficiente a dissuaderlo da qualsiasi altro tentativo.
Penso comunque che anche la ferita morale si rimarginerà presto. Odio il perdonismo untuoso che cola dai pulpiti e dai teleschermi, ma questa è tutta un’altra faccenda. C’è di mezzo in qualche modo la stima, e non la concedo a fondo perduto. La persona di cui sospetto è più anziana di me, non ha alcun bisogno di rubare per vivere, perché lavora da una vita, è ancora incredibilmente attiva e non si tira certo indietro di fronte alla fatica. La sua è una malattia, una coazione all’accumulo che in effetti si manifesta anche per vie più innocue e che prevede in fondo anche una qualche redistribuzione. Non posso volerle male: non mi viene spontaneo e non mi darebbe alcuna compensazione. È probabile che il più imbarazzato, la prossima volta che la incontro, sia io. Spero di riuscire a sorriderle. E spero che capirà.