di Paolo Repetto, 30 dicembre 2011
Dovremmo far precedere qualsiasi discorso di politica, di economia, di sociologia, o comunque relativo a quanto può essere considerato “scienza dell’uomo” (nella quale rientrano persino le più banali considerazioni meteorologiche) da un’avvertenza: tutto ciò di cui si va a trattare si iscrive nel panorama della storia naturale. Nel senso che ne discende, e nel senso che comunque non ne esce. È quella che Timpanaro chiamava l’assunzione di un materialismo ateo, ovvero della coscienza che i nostri comportamenti hanno una radice naturale, e per quanto storia e cultura ci abbiano poi lavorato, è sempre da quella radice che traggono linfa. Non solo: come tutte le specie in natura anche la nostra è a termine (forse più di tutte le altre), quindi ogni considerazione va fatta tenendo conto della “temporalità” della prospettiva.
Chiarito questo, non è che si arrivi di conseguenza a rinunciare ad ogni tentativo di indagine sui percorsi “culturali” dell’umanità e a disperare della possibilità di abbozzare un’etica comune e diffusa, o quanto meno un codice di mutuo rispetto. Anzi, è un’operazione oggi più che mai necessaria, e tutt’altro che gratuita, della quale dobbiamo farci carico per dare un senso all’anomalia (parziale) che come esseri umani costituiamo.
Abbiamo bisogno di regole dettate da noi perché quelle naturali, dettate dalla nostra biologia e valide per tutte le specie, per noi non funzionano. Abbiamo fatto saltare gli automatismi di risposta biologici e siamo da millenni alla ricerca di qualcosa che li sostituisca. In tal senso, per un periodo lunghissimo abbiamo continuato a cercare norme valide per tutti e per sempre, e la cosa era giustificata dal fatto che la società appariva relativamente stabile e simile a se stessa nel tempo, così come l’ambiente esterno. In realtà i cambiamenti c’erano, economici ed ambientali (si pensi alla domesticazione di certe piante o di certi animali, e alla conseguente mutazione dei regimi alimentari, dei modi di coltivazione e di produzione, ecc.): ma i tempi della trasformazione erano talmente lunghi da renderla quasi impercettibile, e da consentire comunque un adeguamento non traumatico dei modelli comportamentali. È pur vero che ogni generazione ha da sempre lamentato lo stravolgimento di valori operato da quella successiva, ma questa recriminazione è in genere legata più a un disagio individuale, al trascorrere dell’età e alla personale inadeguatezza che ciò comporta, che non a ad una reale coscienza delle macro-trasformazioni in atto.
La distonia nei confronti dei tempi, piuttosto che della vita, ha cominciato ad essere avvertita con l’avvento della “modernità”: il modo di produzione industriale ha impresso una violenta accelerazione nei cambiamenti, una radicale trasformazione dell’ambiente, una totale dissoluzione dei vecchi rapporti. L’economia industriale, con tutto il suo indotto in termini sociali e politici, apre i gusci tribali, crea la necessità di uno scambio tra protagonisti che arrivano da storie e da culture diverse, non concede tempi lunghi per gli adeguamenti, impone la necessità non di studiare regole nuove ma di inventare un nuovo modello, elastico, di convivenza. In pratica la società viene atomizzata, e l’atomizzazione libera i singoli atomi alla possibilità di aggregarsi in molecole di tipo diverso – di-venta società dinamica. Ma per fare questo è necessario che a ciascun individuo vengano riconosciute alcune proprietà, o valenze, minime. Queste proprietà sono i diritti.
Una società fondata sui diritti è un insieme liquido: non si cristallizza, ma si adegua alle trasformazioni ambientali. “Scorre” costantemente andando a riempire ogni spazio nuovo che si apra, o apre essa stessa nuovi spazi con la forza dell’erosione. Non è un canale dalle sponde cementificate, dal dislivello continuo e leggero, con una portata e una velocità costanti. Incontra salti, si addensa in rapide, si trascina appresso i detriti strappati alle sponde, depositandoli poi mano a mano sul fondo, e tende ad allargare costantemente il suo letto raccogliendo lungo il percorso gli immissari laterali. Fuor di metafora: la forza che tiene assieme una società dei diritti non è la pressione esterna, naturale o soprannaturale che si voglia, ma la coscienza più o meno chiara in ogni singolo che la convivenza si regge su un sistema convenzionale di regole, e che per partecipare al gioco è necessario accettarne almeno in linea di massima il regolamento. La convenzione, le regole, non riguardano i modi (questo fa parte dell’etichetta) ma senz’altro lo spirito (e questo riguarda l’etica).
Ciò vale naturalmente per le società che per prime accedono alla dimensione industriale, ovvero quelle occidentali. Per le altre, che sono state coinvolte solo nell’ultimissimo periodo, o sono state coinvolte in precedenza come non partecipanti al gioco, il discorso è molto diverso. Il tentativo di universalizzare la cultura occidentale del diritto, anche ammettendo che sia stato fatto in buona fede (il che non è quasi mai vero) è fallito inizialmente per le resistenze di modelli economici e sociali arcaici e di tradizioni culturali che andavano in direzione opposta, poi di fronte al crollo repentino dei primi e alla dissoluzione delle seconde, che hanno lasciato il posto ad una terra di nessuno aperta alla pura competizione selvaggia, senza regole.
Noi vaghiamo oggi in questa terra di nessuno, testimoni di trasformazioni che ci lasciano inesorabilmente indietro, quale che sia la nostra appartenenza generazionale, tanto sono rapide ed estese. Non siamo in grado di decifrarne le dinamiche e meno che mai di individuarne le finalità e immaginarne gli esiti.
La scaletta per una proposta di riflessione seria potrebbe pertanto essere:
a) Come è stato elaborato il nostro (occidentale) sistema di regole, attra-verso quali tappe? Come si è passati da una normativa dettata dalla natura a una dettata dalla cultura?
b) questo sistema è compatibile con una congiuntura come l’attuale, nella quale si confrontano modelli culturali assolutamente diversi (o ci si confronta con un’assenza totale di regole)? In sostanza: va difeso (e sem-mai migliorato) a tutti i costi, magari lasciando degli spazi marginali di interazione e confronto laddove arrivino segnali di reciprocità? oppure va rimesso totalmente in discussione, e reso adatto ad accogliere in seno ogni alterità?
c) Visto il sostanziale fallimento tanto del multiculturalismo quanto delle politiche di integrazione, e stante la necessità di trovare al più presto, non fosse altro per frenare l’agonia del pianeta, un minimo di condivisione di alcuni principi. Se non è compatibile, come organizzarne uno che sia più o meno accettabile da tutti? Ad esempio, è ipotizzabile, vista l’emergenza ecologica, pensare a regole imposte dall’alto, uguali per tutti (almeno in teoria) per tentare di frenare l’agonia del pianeta?


