Prospettive (a/o)ccidentali

di Paolo Repetto, 24 giugno 2024

(Questo testo è stato concepito come introduzione al volume IX delle Opere complete dell’autore, la cui uscita sembra rimandata sine die per analfabetismo digitale dello stesso. Ve lo anticipiamo comunque, in attesa che ritrovi la sua originaria destinazione.)

Nel lessico architettonico la prospettiva accidentale (detta anche angolare) è quella che identifica sulla linea dell’orizzonte due punti di fuga, uno a destra ed uno a sinistra rispetto al punto di vista. Questo avviene quando il piano sul quale si situa l’osservatore non è parallelo all’oggetto osservato, ma angolato. Per intenderci, quando si visualizza e si rappresenta un oggetto non frontalmente, ma di sbieco. È la modalità di rappresentazione che incontriamo con maggior frequenza nel disegno architettonico moderno (ad esempio, negli scorci urbani futuristici di Sant’Elia), perché suggerisce l’idea di una visione “casuale”, di una “istantanea”, e in qualche modo, invece di fissarla, movimenta l’immagine. Per ottenere tale effetto è anche opportuno che la figura risulti sfalsata rispetto al quadro prospettico secondo angoli diseguali (non cioè due angoli di 45°), e che il punto di vista scelto sia quello che offre lo scorcio più “interessante”.

Se questa modalità la si trasferisce su un piano simbolico, ci offre la metafora perfetta del rapporto che è venuto a crearsi nel corso dell’età moderna tra il soggetto osservante e il mondo che lo circonda: e questo vale tanto per il rapporto spaziale (l’uomo e la natura, l’individuo e la società) che per quello temporale (l’uomo e la storia). Vorrei usarla quindi come tale, ma prima cerco di spiegarmi meglio, e per farlo devo fare un passo indietro e partire da lontano.

Accade questo. Nel Quattrocento e nel corso del Rinascimento si compie nelle arti visive quella che viene definita la “rivoluzione prospettica”. Si adotta cioè un punto di vista esterno rispetto all’oggetto da rappresentare: si frappone uno spazio tra soggetto e oggetto, come se l’uomo, che aveva vissuto sino a quel momento “dentro” la natura (e, aggiungerei, dentro una qualsivoglia comunità di specie, tribale, religiosa, militare, ecc …) da un lato sentendosene parte, ma dall’altro rimanendone in balìa, cominciasse a guardare ciò che lo circonda da una finestra, e a staccarsene. La finestra, come avverrà più tardi con l’obiettivo fotografico, “in-quadra” il mondo osservato, definisce la separazione dell’osservatore, e induce quest’ultimo a scegliere un posizionamento (il punto di vista) che renda possibile concentrare la sua attenzione su quanto riveste per lui uno specifico e immediato interesse. La messa a fuoco avviene seguendo delle linee ideali, le cosiddette “linea di fuga”, che non si fermano sull’oggetto, ma si prolungano sino a incontrare in un “punto di fuga” il piano dell’orizzonte. In questo modo si determina una distanza, una separazione dall’oggetto: ma poi si reintegra quest’ultimo in uno spazio “geometrico”, quello che il soggetto gli crea attorno, davanti e dietro. In sostanza si inventa, o si riconosce, una nuova dimensione esterna, quella della profondità, in opposizione alla quale cresce, si evidenzia e si proietta a sua volta quella interna dell’individualità.

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L’introduzione della profondità modifica infatti radicalmente il rapporto con tutto ciò che sta fuori. Andate a rivedervi Masaccio, Paolo Uccello e La scuola di Atene di Raffaello e capirete di cosa sto parlando. Mentre lo spazio piano, che era caratteristico della cultura classica e di quella medioevale, consentiva al suo interno una differenziazione eminentemente qualitativa, nella quale valeva un gioco di corrispondenze e di similitudini che prescindevano da ogni computo, quello prospettico ne introduce una quantitativa, sconosciuta agli antichi. In altre parole, il soggetto si “appropria” dell’oggetto inserendolo in una dimensione profonda che consente di rilevare i volumi, lo inscrive in una struttura geometrica, e quindi lo “quantifica”: e si appropria anche dello spazio (non solo di quello fisico, ma anche, ad esempio, di quello politico e relazionale), perché lo ridisegna.

In questo modo l’umanità può controllare un mondo dal cui abbraccio si è divincolata, e “razionalizzarlo”. È come se per millenni avesse ammucchiato mattoni, magari associandoli per grandezza o per colore, e adesso cominciasse a disporli e organizzarli secondo le linee e gli angoli di un progetto ben preciso di edificazione. Non solo: ogni successivo arretramento della linea dell’orizzonte, prodotto dalla proiezione del progetto nel futuro, induce una crescente curiosità nei confronti dell’incognito, sempre meno frenata da paure e superstizioni e sempre più sorretta da nuove potenzialità previsionali. Questa è non a caso l’età delle scoperte geografiche, che abbandona la navigazione a vista e introduce il calcolo delle rotte. La profondità può essere percorsa, comporta possibilità inedite di movimento e di relazioni, e le distanze da coprire sono tradotte in tempi e costi (o vantaggi).

Le implicazioni che discendono a catena da questa modalità di rappresentazione del mondo non riguardano dunque solo la percezione dello spazio. Anche la concezione del tempo è strettamente connessa all’adozione della prospettiva, e anch’essa conosce una dilatazione, sia della profondità storica che della progettualità nei confronti dell’avvenire. Ad un remoto spaziale si associa insomma anche la consapevolezza di un remoto temporale, passato o futuro. L’idea che noi occidentali abbiamo del tempo dipende infatti, oltre che dall’assunzione a modello percettivo del ritmo biologico e della linearità della vita individuale, dal modo in cui ci rappresentiamo lo spazio. Questo lo aveva già capito Aristetele, quando diceva che il tempo è quello “spazio” che intercorre tra il prima e il poi, e in quello spazio si dà il movimento, e quindi il tempo è il “numero”, la misura del movimento.

Malgrado ciò, nel ‘500 l’associazione spazio-tempo non è ancora così immediata: lo dimostrano le fogge nelle quali sono abbigliati, nelle rappresentazioni di vicende dell’antichità classica o della storia testamentaria, i protagonisti, o le architetture rinascimentali entro le quali questi si muovono. Ma la profondità dell’ambientazione, con la possibilità di immaginare al suo interno un movimento delle figure, già di per sé “storicizza” quanto viene mostrato. Per rimanere nell’esemplificazione iconografica, alla fissità atemporale dei vari Cristi crocifissi o delle Madonne in trono succedono le rappresentazioni “drammaticamente” ambientate delle Annunciazioni o del pagamento del tributo. Questo implica, nel caso delle prime, la “storicizzazione” della vicenda evangelica, la costruzione di una biografia del Cristo distesa nel tempo; nel secondo caso la separazione tra ciò che attiene al sacro e quanto ricade nel profano, e al tempo stesso la legittimazione ad esistere di quest’ultimo.

La nuova modalità di conoscenza prodotta dal collocarsi fuori dal quadro identifica insomma in ciò che viene osservato nuovi significati e nuove potenzialità, e li piega ad uno scopo. Impone cioè che si adottino dei criteri di scelta delle direzioni da percorrere e dei progetti da realizzare, e suppone che questi ultimi siano quantificabili in tempi, costi e risultati.

Riassumendo: da un certo periodo in poi il mondo e le azioni che si compiono nei suoi confronti sono visti “in prospettiva”. Le direzioni, i progetti, le aspettative, sono altrettanti atti di volontà di un soggetto che si è separato dall’oggetto della sua conoscenza, negando implicitamente quella organicità indifferenziata di cui in precedenza si sentiva partecipe: le cose non accadono per fatalità o per leggi naturali intrinseche ed immutabili, non scorrono davanti a noi come su uno schermo, o attorno a noi come in una rappresentazione plastica nella quale figuriamo solo come comparse, ma vengono riordinate nella profondità di uno spazio pensato dall’uomo a sua misura, secondo sequenze geometriche e matematiche delle quali ha la regia. All’interno di questo spazio creato dalla prospettiva, che contempla la dimensione della profondità, l’oggetto non risulta più statico, ma diventa passibile di spostamento, e il soggetto acquista facoltà di intervento. Alla fissità della statica subentra il primato della dinamica; lo studio e la riproduzione dei meccanismi del movimento gettano le fondamenta della moderna meccanica. Ora, l’unico modo nel quale si può attraversare lo spazio è il tempo, e lo spazio prospettico matematizzato ha quindi riscontro in una prospettiva temporale nella quale l’uomo comincia a iscrivere il proprio agire, e che sancisce in fondo la vittoria definitiva dell’idea biblico-cristiana della linearità del tempo, introducendo in più quella della fuga in avanti (ovvero, della progressione).

Questo modo di procedere viene definito in un primo momento “iuxta propria principia”, come fosse dettato dai principi stessi naturali, quasi a difenderlo dal sospetto di sacrilegio. In realtà quei principi sono dettati dai modi nei quali la natura è rappresentata, dalla necessità di ricondurre tutto a spiegazioni razionali, anche quando le si cerca col tramite dell’esperienza. In fondo anche Galileo parte dal presupposto che “la natura è un libro scritto da Dio in linguaggio matematico”. Il fatto è che il libro non lo ha scritto né dettato Dio, ma gli uomini, e gli uomini possono leggere solo quello che essi stessi hanno scritto. Non tarderanno ad accorgersene, ma ci vorranno secoli prima che arrivino ad ammetterlo.

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Mi accorgo che forse l’ho messa giù troppo pesante, e a questo punto dubito fortemente che la mia sintesi possa risultare chiara: ma ho già trattato l’argomento della “rivoluzione prospettica” in Da Pico a Bacone, e a quel testo rimando. Nell’occasione avevo però badato soprattutto a cogliere le premesse della trasformazione epocale dei modi della percezione, e a documentarne lo straordinario impatto in ogni ambito della conoscenza umanistico-rinascimentale (e, naturalmente, della prassi), fermandomi alle soglie di quella che sarebbe poi stata definita la “modernità”. Proprio quella che invece, sempre in maniera molto sintetica, vorrei provare ad affrontare adesso (anche se, in realtà, ho già sviluppato questa parte in maniera più analitica in un altro testo, La discesa dal Monte Analogo – cfr. il capitolo Razionalizzare il mondo).

La rivoluzione prospettica non va comunque a compimento nel Rinascimento: conosce ulteriori sviluppi, quelli appunto che dovrebbero essere oggetto di queste pagine e che stanno all’origine del nostro attuale “disorientamento”.

Il fatto è che la prospettiva centrale, o frontale, quella adottata per le arti visive nel Rinascimento, dilata indubbiamente lo spazio, ma nella sostanza poi lo richiude, perché fa convergere in un punto preciso (il punto di fuga) le linee di proiezione. Questo è un modo senz’altro efficace per mantenerne il controllo. Un esempio lampante lo possiamo trovare negli sviluppi della conoscenza geografica cui ho già fatto cenno. Le scoperte spostano ripetutamente in avanti la linea dell’orizzonte, aprono sempre nuovi spazi, ma su questi viene immediatamente gettata una rete di linee geometriche che li ingabbiano, li razionalizzano e li quantificano. La conoscenza nuova che si ha del mondo è immediatamente tradotta in distanze, tempi di percorrenza, prospettive economiche.

Sul finire del Rinascimento però questa rete di controllo, che in fondo rispondeva ancora alla concezione classica di unitarietà del mondo, comincia a mostrare le sue falle. Le varie rivoluzioni che si succedono, da quella religiosa a quella scientifica, e prima ancora quelle indotte dalla stampa o dalle armi da fuoco, introducono una molteplicità di punti di vista, e quindi di potenzialità prospettiche. Si comincia a guardare da finestre diverse, con diverse angolazioni, su orizzonti che non solo si spostano, ma mutano. A mano a mano poi che si realizzano una conoscenza e un dominio sempre più ampio e performante sulla natura si scopre anche che ogni nuovo passo apre più problemi e interrogativi di quanti non ne risolva. La “docta ignorantia” di Cusano, che sembrava essere stata messa alla porta proprio con l’introduzione della prospettiva, rientra dalla finestra: solo che non riguarda più le cose di Dio, la Verità, ma le cose del mondo.

Anche in questo caso è l’arte a dare conto nella maniera più immediata ed evidente del cambiamento. Già il barocco, ad esempio, propone preferibilmente angolazioni e soluzioni “eccentriche”, e adotta una fondamentale variante prospettica, quella appunto della prospettiva accidentale. E le “capricciose invenzioni” di Piranesi, frutto di una sensibilità inquieta, precorritrice del romanticismo, vagheggiano la fuga in un mondo ideale che si sottrae ai canoni geometrici rivoluzionandoli dall’interno, e rifiuta ogni commensurabilità. L’esito ultimo della rivoluzione è questo.

Al contrario della prospettiva centrale, che pur dilatandolo chiude lo spazio, quella accidentale infatti lo apre, perché i punti di fuga sulla linea d’orizzonte possono anche uscire dalla scena, trovarsi all’esterno del quadro prospettico, cioè al di fuori dello spazio che vediamo rappresentato. Come scrive un eminente storico dell’arte, Erwin Panofsky, è la “forma simbolica” di un modo di vedere il mondo senza cercare di racchiuderlo nel perimetro dell’immagine. La prospettiva accidentale ci dice che quel mondo non lo si potrà mai rappresentare nella sua interezza, ma solo coglierne scorci, angoli fuggevoli e linee che si perdono oltre il nostro sguardo. In sostanza, la nostra conoscenza ne esce relativizzata.

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Quello che accade dopo è davvero troppo complesso per azzardarne una sintesi. È una vicenda che inizia con il moltiplicarsi dei punti di vista e delle angolazioni prospettiche, e procede poi lungo tutta la modernità tra alti e bassi, speranze illuministiche e regressioni romantiche, magnifiche sorti e progressive e tramonti decadentistici. E lungo il cammino assume le caratteristiche di una proiezione squisitamente “occidentale” del posto dell’uomo nel mondo, riassumibile nell’idea di “progresso”, che viene trasmessa o imposta gradualmente a tutte le altre culture. Ma oggi, essendo approdata nella seconda metà del ventesimo secolo al nichilismo relativistico della post-modernità, parrebbe non funzionare più. E qui conviene che citi direttamente da La discesa dal Monte Analogo: faccio prima ed evito di ripetere per l’ennesima volta le stesse cose. Con una avvertenza, però: in quelle pagine riportavo la ricostruzione del percorso della modernità quale è operata dagli anti-moderni (alias anti-illuministi o anti-occidentalisti), che mi trova d’accordo solo sino ad un certo punto, perché si risolve poi nell’ipocrita rifiuto di ogni portato della civiltà “occidentale”, compreso il diritto alla critica del quale si avvalgono. Voglio dire che nelle linee di massima la ricostruzione è corretta, mentre non lo è affatto l’interpretazione che si dà dell’intera vicenda.

«Come abbiamo visto, l’imputazione più generica è di aver usato lo strumento della ragione per impadronirsi del mondo e sfruttarlo, e di aver legittimato questo dominio postulando una naturale convergenza tra sapere e potere (vedi Francesco Bacone). Ovvero, di avere attuato una “razionalizzazione del mondo”, intesa sia come modalità conoscitiva ed esplicativa che come condizione e modello per agire su di esso, per modificarlo e addomesticarlo.

Cosa significa però “razionalizzare il mondo”? Nella interpretazione antimoderna significa in primo luogo ridurne la lettura alle sole operazioni compatibili con quanto la mente umana è in grado di dominare: ovvero, costringere il reale negli schemi totalizzanti dell’unità e della storicità ed escludere il molteplice, tutto ciò che non trova spiegazione entro questi schemi. Vale a dire: supporre che esista una logica interna al tutto, e che tutto ciò che esiste o accade sia sempre spiegabile in termini razionali, e solo in essi. È quanto Hegel aveva lapidariamente riassunto in “Tutto ciò che è razionale è reale; e ciò che reale è razionale”. […]

Con la rivoluzione scientifica entriamo ormai nel pieno della modernità. Bacone, Cartesio e Galileo hanno gettato le fondamenta per una visione meccanicistica del mondo naturale: Hobbes l’ha poi trasferita ai rapporti interumani, postulando che la società sia una costruzione artificiale (un meccanismo, quindi, anziché un organismo) e che il potere abbia una natura contrattualistica, fondata sulla somma delle convenienze individuali. Dopo di lui gli illuministi settecenteschi e i positivisti dell’Ottocento hanno fatto dello studio “scientifico” della società un obiettivo prioritario. “Razionalizzare” significa infatti applicare il parametro razionale non solo come condizione del conoscere ma anche come misura dell’efficienza e della bontà, o della utilità, dell’agire: quindi adottare quell’attitudine che chiamiamo, in genere con un po’ di sufficienza, “pragmatismo”. […]

È insomma accaduto che uno strumento proprio della ragione (nel nostro caso la capacità di immaginare delle coordinate per definire degli spazi o di individuare percorsi non obbligati dalla configurazione del territorio) e funzionale al metodo scientifico, quindi applicabile alla geografia e più in generale alle scienze naturali, è stato trasferito nell’ambito delle scienze umane (nella politica e nell’economia). Questo tipo di sconfinamento è diventato più frequente e scontato mano a mano che si imponeva una conoscenza “geometrizzante” del mondo: in parallelo si affermava infatti la spinta a “razionalizzare” il potere, il dominio, l’economia, la società, e di lì a poco tutta la sfera esistenziale individuale, controllando e pilotando anche desideri ed emozioni.

Imboccando questa strada, secondo i post-modernisti, la ragione ha fatto compiere un salto qualitativo alle sue pretese: intanto si è appropriata in esclusiva di un terreno che avrebbe dovuto condividere con altre modalità conoscitive, non razionali; poi è passata dalla ricerca del logos, della coerenza interna al reale, a quella del senso, ovvero dalla descrizione del mondo alla sua interpretazione. Anziché limitarsi ad interrogare ha insomma costruito anche le risposte, e lo ha fatto naturalmente a propria immagine e somiglianza. Di conseguenza ha favorito l’atomizzazione sociale, perché ha cancellato quei legami comunitari che non erano “matematicamente” controllabili e li ha sostituti con la cultura del diritto, che definisce dei margini di autonomia individuale e consente di quantificare gli spazi e organizzare meccanicamente i rapporti.

Il risultato è che il mondo, inevitabilmente, è stato letto sempre più come il “regno della quantità”: il che comporta dissezionare un organismo e ricomporne i pezzi nei modi della organizzazione, secondo la misura umana. Ovvero separazione, omologazione e appiattimento.»

E individualismo, occorre aggiungere. Perché, tornando alla nostra metafora della prospettiva, ci siamo pian piano allontanati dalla finestra, ma non per uscire fuori e reimmergerci nella natura, cosa di cui peraltro non saremmo più capaci e che comunque non avrebbe senso, bensì per guardare dentro uno specchio. E a differenza di Alice non siamo in grado di andare oltre. Anziché continuare a dilatarsi l’orizzonte si è ristretto, le linee di fuga si sono progressivamente accorciate, fino ad appiattirsi sul piano prospettico. Non vediamo più fuori, la natura, gli altri, abbiamo perso la dimensione della profondità e siamo concentrati su noi stessi e sull’immediato presente. Si potrebbe parlare di prospettiva invertita.

In questo senso posso usare in chiusura una metafora ancor più significativa, quella offerta dal dilagare del selfie. Nel selfie il punto di vista è quello di una macchina, e il soggetto guarda se stesso diventato oggetto. Può ambientare in vari modi la sua presenza, avere alle spalle un monumento, un paesaggio naturale, il gruppo di amici o il personaggio famoso, ma lo scopo è sempre quello di “oggettivarsi”, documentare a se stesso la propria esistenza. Altro che guardare, o vedersi, “in prospettiva” centrale. L’eterno presente, l’assoluta immobilità progettuale in cui è confinato sono l’anticamera della sparizione, e il selfie è un estremo patetico tentativo di scongiurarla. Un’istantanea, appunto, che in realtà testimonia solo della nostra “accidentalità”.

Qui volevo arrivare, con tutto questo giro. Al fatto che il venir meno della fiducia in quella che era diventata la prospettiva “occidentale” crea oggi un vuoto di futuro, uno scombussolamento degli orizzonti, nel quale si cerca affannosamente di trovare non tanto nuovi punti di fuga sui quali convergere, ma delle linee di fuga sulle quali appiattire tutte le molteplicità. E lungo le quali sfuggire alla crescente e angosciante sensazione della nostra individuale irrilevanza.

La rivolta anti-occidentale, con tutte le motivazioni che può legittimamente accampare, non sembra dunque preludere ad un cambio di rotta, a un ricollocamento della specie umana nel mondo che tenga comunque conto della sua “eccezionalità”, del fatto che ormai da tempo – da ben prima che questo fatto fosse sancito dall’invenzione della prospettiva – si è collocata fuori dal quadro, e questo proprio per seguire la sua specifica natura. L’impressione è piuttosto quella di una navigazione a vista, di una visione talmente schiacciata sul presente da non consentirci di avvertire che siamo già sugli scogli. E il naufragare in questo mare ci è tutt’altro che dolce.

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Tutto questo sproloquio parrebbe aver poco a che vedere con i contenuti del presente volume. Non è così. A rifletterci, sia le biografie raccolte nella prima parte che gli interventi estemporanei ospitati nella seconda parlano in fondo della prospettiva “occidentale”, raccontando le une il rifiuto nei suoi confronti, le altre la sensazione o la concreta percezione del suo venire meno. Non dicono alcunché di nuovo, ma almeno mi hanno aiutato per il tempo che mi è occorso a stenderle a distrarmi dallo specchio e a guardare dalla finestra. La speranza è ora che aiutino anche altri a farlo.