​Pendoli e pendagli

di Carlo Prosperi, 21 gennaio 2021

Credo sia ormai il caso di presentare “ufficialmente” Carlo Prosperi, anche se non dubito che i frequentatori del sito abbiano già imparato a conoscerlo. Sarò breve: se tirassi giù una sbrodolata mi toglierebbe immediatamente l’amicizia, alla quale tengo invece moltissimo. Mi limiterò a un paio di ricordi da ex compagno di scuola, che a mio giudizio inquadrano l’essenziale. Quando è arrivato nella nostra classe – credo in prima Liceo – Carlo sapeva già, a differenza di tutti noi, cosa davvero lo interessava e cosa avrebbe voluto fare da grande. Scelse di frequentare praticamente part-time, e di dedicare più proficuamente il suo tempo alla sua vera passione, la lettura. Alla fine delle secondarie aveva letto più di tutti noi messi assieme, e di matematica e fisica sapeva comunque quanto me (vale a dire ben poco) che in cinque anni non avevo perso un giorno. Una volta all’Università, libero da orari e scadenze e impegni di frequenza, ha bruciato le tappe ed è stato il primo a laurearsi. Di lì è iniziata la sua missione di insegnante e, ciò che maggiormente qui importa, una attività di studioso tutta fuori dagli schemi correnti. Nel senso che è uno serio, che non compare in tivù e poco anche fuori, professionale nel metodo e negli approfondimenti (è la cosa che più gli invidio) e onnivoro negli interessi culturali. Può scrivere d’arte, di letteratura, di storia o di filosofia con la stessa ferratissima competenza, e insieme con la stessa modestia. “Il faut cultiver notre jardin” potrebbe essere il suo motto (anche se ama poco Voltaire). Ma per crescere fiori bisogna anche avere il pollice verde. E Carlo lo ha senz’altro.

Paolo Repetto

Caro Paolo,

ho letto con sommo interesse il tuo saggio sul complottismo e ancora una volta mi devo dichiarare d’accordo, almeno in gran parte, con te. Il complottismo, inteso nel suo senso deteriore, non è molto dissimile dall’allucinazione ossessiva. E bene ha fatto Eco a irriderne e a smontarne, nel Pendolo di Foucault, gli aspetti mistificatori. Che accomunano ed hanno accomunato tanto la destra quanto la sinistra: se, per ragioni politico-propagandistiche, Mussolini evocava complotti massonici e demo-plutocratici, da Togliatti ed epigoni abbiamo appreso di una perenne “Reazione in agguato”. Nel Mulino del Po Bacchelli citava i “segreti” di cui si nutriva “la bislacca visione” del Cavallotti: «dopo quel di Novara, il “segreto” d’Aspromonte, e poi di Mentana…». Una trama di congiure antidemocratiche, quasi una “strategia della tensione” ante litteram.

Oggi, con la globalizzazione imperante, la Spectre ha assunto aspetti e dimensioni ancor più inquietanti. Certo i “poteri forti” esistono, ma spesso sono tra loro in conflitto. O in concorrenza. Per spartirsi le aree d’influenza. O i mercati (è il caso delle multinazionali). Come è sempre accaduto. Da sempre esistono gli arcana imperii. E quanti registi hanno costruito la loro fortuna sui complotti della CIA, dell’FBI, dei Servizi Segreti. Ma vogliamo chiamare complotto anche l’espansionismo cinese, che, con la “Diplomazia dei Vaccini”, va accelerando la sua penetrazione socio-economica nel mondo, a cominciare dall’Oriente, in un confronto muscolare a tutti i livelli con le economie occidentali? La “Diplomazia dei Vaccini”, da agosto in qua, si è estesa ad aree politicamente ed economicamente cruciali del Medio Oriente: dal Bahrain all’Egitto, dalla Giordania agli Emirati Arabi, dall’Arabia Saudita a diversi Paesi dell’America Latina. Ai vaccini si sono aggiunti accordi economici: con la Turchia, con Israele, col Pakistan. Al Marocco è stato concesso un brevetto per la produzione di un vaccino cinese per tutta l’Africa: continente in cui la penetrazione cinese è già molto estesa. Complotto? Ma tutto avviene alla luce del sole, tutto è di dominio pubblico, anche se i nostri mass-media ne parlano poco e senza dare a tutto ciò il rilievo che meriterebbe. Lo stesso poi si potrebbe dire degli USA e della disciolta URSS.

Il vero complottismo – come tu ben spieghi – si ammanta di mistero (arcano resta il “disegno perversamente intelligente” con cui si ripromette di asservire l’umanità) e sfugge ai giochi o agli intrighi diplomatici, ma le élites che promuovono la congiura si conoscono tra loro (tutte d’accordo? possibile?) e le conosciamo. Sappiamo nomi e cognomi dei componenti della Trilateral Commission o del Bilderberg. Ricordo che Gianni Collu a siffatta mia obiezione rispondeva che queste organizzazioni non sono il vertice di nulla, bensì soltanto la cinghia di trasmissione di un Potere Occulto, giacché i veri processi decisionali avrebbero luogo ancora più in alto. Un paradosso capzioso: se il Demiurgo non è Dio e se Dio sta sopra o dietro di lui, perché dietro o sopra Dio non potrebbe esserci, che so? un Super-Dio, un Ur-Dio? E via retrocedendo all’infinito: un altro esempio di “cattiva infinità”.

Come vedi, il discorso è complesso. E a complicarlo concorrono poi le “Società Segrete”, le Mafie, le P2 o P3, le infinite sette che nella storia hanno contribuito ad alimentare il mito e il gusto dei complotti. Non tutti a fin di male: stando a Luigi Natoli, i Beati Paoli, ad esempio, si proponevano di vendicare le ingiustizie a danno dei più deboli; altre associazioni si ripromettevano di liberare i popoli dall’oppressione o di instaurare l’uguaglianza tra gli uomini. Ma siamo pur sempre mille miglia lontano dal “complotto mondiale” dei tempi nostri. E fin qui hai perfettamente ragione. Come hai ragione a dire, a commento del pensiero foucaultiano, che tu in parte condividi, a distinguere la realtà (“ciò che accade”) dalle fantasie (“ciò che vien fatto accadere”). Ma dimentichi di aggiungere che Foucault, nel denunciare l’onnipervasività del potere o, se vuoi, quella “microfisica del potere” capace di penetrare in ogni atto, situazione, gesto, ometteva di menzionare il suo potere, quello da lui espresso come cattedratico, come intellettuale à la page, come scrittore di successo (già nel 1971, George Steiner vedeva in lui “il mandarino del momento”). Un successo, il suo, dovuto all’ambiguità o alla contraddittorietà dei suoi stessi enunciati, come ha evidenziato nel 1977 Jean Baudrillard nel suo saggio Dimenticare Foucault. Pensa ad asserzioni come quelle che seguono: “noi ignoriamo ancora che cos’è il potere, questa cosa enigmatica, a volte visibile e invisibile, presente e assente, investita in ogni parte”; il potere è “una modalità di azione sulle azioni degli altri», lo si coglie cioè solo quale mero effetto, senza poter risalire univocamente a una sola causa cosciente; «il potere è ovunque, essendo immanente alla struttura sociale”. Puro fumo, per di più oppiaceo.

Jean-Marc Mandosio, nel pamphlet “Longevità di un’impostura: Michel Foucault”, uscito in Francia nel 2010, ha giustamente rilevato come, con la sua prosa intessuta “di asserzioni contraddittorie e di ingiunzioni equivoche” e di termini-feticcio come “dispositivi”, “norme”, “biopolitica”, “trama reticolare”, “Biopotere», Foucault abbia dato “forma filosofico-letteraria ai luoghi comuni di un’epoca”. E parla di acrobazie teoricistiche, di terminologie passe-partout e di esibizioni erudite (come se avesse tutto letto e rovistato in tutti gli archivi), senza le quali l’idea ontologico-teologica di rivoluzione permanente e ubiqua non sarebbe stata così esportabile nelle università di mezzo mondo. Così Foucault ha messo in discussione i «dispositivi» della legittimazione sociale e intellettuale. Ma se il potere è dovunque, se l’uomo è sempre, inevitabilmente, parte delle leggi che lo governano, e queste leggi o sono storico-sociali o sono naturali, dove sta il problema? Tutti i sistemi politici sarebbero sostanzialmente equivalenti o almeno equiparabili. Se non esiste più l’individuo, ma la trama delle sue relazioni, ovvero ciò che è dato dalla continua, mutante struttura occulta che lo sottende, egli cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso. Si scopre che ciò che lo rende effettivo è un insieme di strutture che può pensare e descrivere, ma di cui non è il protagonista determinante. In altri termini, è un ente in balìa della sua trasversale esperienza. Di conseguenza, la volontà umana autocosciente giunge alla sua completa dissoluzione: l’individuo è soltanto un residuo e con esso, naturalmente, anche la sua specifica libertà. Alla luce di quanto detto, “ciò che accade” è anche “ciò ch’è fatto accadere”. Io, quindi, t’inviterei a non credere alla veridicità di Foucault: “ciò che accade”, ammesso che sia corretto usare tale verbo, non “accade” come dice lui.

Non solo. Foucault ha alimentato, fra l’altro, le rivendicazioni del femminismo. Le donne, che si sono sentite senza potere o vittime del potere patriarcale o maschilista, oggi quel potere lo reclamano. Ma partono da un assunto che contrasta con le premesse stesse del potere ubiquo. Personalmente – tanto per discendere dall’iperuranio a più prosaica e quotidiana realtà – ricordo che in casa mia (e di tanti altri che conosco) nominalmente comandava mio padre (il capofamiglia), ma nella pratica il potere “sotterraneo” di mia madre era non di rado vincente. Alla lunga era <più decisivo e dirimente. Oggi le femministe vogliono spogliare i maschi e i padri del loro ruolo sociale, della loro identità tradizionale, della loro auctoritas. Con esiti che ritengo nefasti. Anche per loro stesse. Ma qui, per dare una spiegazione esauriente, dovrei troppo dilungarmi; per cui tralascio il discorso.

Di ben altro spessore è il pensiero di Carl Schmitt, che pure, per altri versi, è dinamite (per dirla col Cucco). Alcuni concetti (la distinzione “amico-nemico”, lo “stato di eccezione”, il decisionismo) ormai entrati nel repertorio comune degli studiosi di politica sono a parer mio fondamentali e non mi stupisce che siano fatti propri da studiosi di destra e di sinistra. D’altronde lo stesso vale per Foucault: se è vero che la sinistra sedicente sovversiva parla oggi la sua lingua, esiste nondimeno un “foucaultismo di destra”. Io, peraltro, condivido anche idee più ardite, quali: “L’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”; o “La prassi si giustifica attraverso sé medesima” (Carl Schmitt, Le categorie del “politico”). Sono cioè convinto che, seppure lo ius presuma di ammantarsi di un abito scientifico e di essere asettico, oggettivo e imparziale, i rapporti di forza restino decisivi. Se non nel dettato giuridico, nella sua reale applicazione. La forza è alla base del diritto. In altre parole: esiste un ordinamento giuridico solo fintanto che è fatto valere con la forza, quindi solo finché è efficace. È bensì vero che per Kelsen la forza non è lo strumento del diritto, e che il diritto è un insieme di norme che regolano l’uso della forza. Ma lo scopo di qualsiasi ordinamento non è organizzare la forza, sì organizzare la società mediante la forza (di cui, non a caso, lo Stato sovrano si arroga il monopolio). Kelsen scambia la forza/strumento con la forza/fine dell’ordinamento. Del resto, anche il carisma è forza e forza è pure quella dei “persuasori occulti”. E poi basta riandare a Machiavelli: la forza può essere anche quella delle leggi, perché “sono dua generazione di combattere, l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie; ma perché el primo molte volte non basta, bisogna ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo”. La golpe e il lione, come sappiamo. Il politico ha la natura del centauro.

Il resto del tuo discorso mi persuade ed è svolto con affabilità da scrittore di vaglia, mescolando ironica sprezzatura a perspicacia argomentativa. Insomma, il saggio è avvincente e si legge di un fiato. Oltre tutto risulta ben impaginato e composto, con ottime illustrazioni. Dove le scovi?

Ho letto anche la risposta dell’amico Nico: nella sostanza siamo più vicini di quanto non sembra, quantunque lui si ammanti di un habitus più scientifico (e talora scientista) del mio. È un vero “mastino della ragione”, e tuttavia, a proposito dell’amore, qualcosa concede – bontà sua – anche alla poesia. Che sia meglio della chimica?

Scusami la forma, forse non sempre scorrevole, ma scrivo currenti calamo, cioè alla tastiera del computer, senza troppo badare alla concinnitas e al nitor dello stile.

Un abbraccio, Carlo.

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